“Il diritto di uccidere”, la guerra coi droni diventa un terribile videogioco

La tecnologia ha trasformato i conflitti in una sorta di videogioco, grazie a microcamere che mostrano nemici lontanissimi e missili scagliati da migliaia di chilometri di distanza. Ma “Il diritto di uccidere” ricorda che la guerra resta una questione serissima, che riguarda la politica, la legge e la morale. È l’ultimo film di Alan Rickman.

Il diritto di uccidere

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L’eye in the sky, l’“occhio nel cielo” del titolo originale de Il diritto di uccidere, è quello dei droni con cui l’intelligence individua in un’anonima casa a Nairobi dei terroristi islamici che stanno preparando un attacco suicida. Sono due inglesi e un americano convertiti alla causa. Si pone l’opportunità di lanciare un missile sull’appartamento per sventare l’attentato. Duplice l’ordine di problemi: primo, trattandosi di cittadini occidentali, è indispensabile l’assenso politico britannico e statunitense all’azione militare e il rispetto del diritto internazionale. Secondo, è necessario calcolare i danni collaterali, per contenere il numero di vittime innocenti.

Il regista Gavin Hood dopo Rendition torna con Il diritto di uccidere al tema del terrorismo, raccontando l’universo paradossale dei conflitti contemporanei, che la tecnologia consente di combattere a migliaia di chilometri di distanza dai teatri di guerra. Il lancio del missile su Nairobi è deciso da persone disposte su uno scacchiere globale: il colonnello britannico Katherine Powell (Helen Mirren), capo dell’operazione; il tenente americano Steve Watts (Aaron Paul), che gestisce il lancio da Las Vegas; l’unità di crisi a Londra col ministro, il generale Frank Benson (Alan Rickman, all’ultima interpretazione) e il procuratore generale; il ministro degli esteri inglese a Singapore; il segretario di Stato americano a Pechino; e l’unico a Nairobi, un agente sotto copertura che introduce un drone camuffato da coleottero nella casa per riprendere i terroristi.

Grazie all’occhio delle videocamere tutti possono osservare gli accadimenti. Ma non sono semplici spettatori, perché a loro è demandata la decisione di attaccare e a quali condizioni. Ed è una scelta, Il diritto di uccidere lo chiarisce bene, che non riguarda solo il rispetto di legge, protocolli e regole d’ingaggio, ma che pertiene anche al campo della morale. L’eliminazione dei terroristi giustifica la morte di innocenti? E quanti? Le forze armate hanno il diritto di indirizzare un missile in un paese alleato (il Kenya) in assenza di una guerra dichiarata? Chi controlla e giudica la legittimità di un’operazione simile?

Il diritto di uccidere, nonostante l’impalcatura da thriller, assomiglia di più a un courtroom drama, incardinato sul potere della parola e sull’analisi minuziosa di tesi e obiezioni. È un cinema inattuale, questo il suo maggior pregio, mentre il difetto sta inevitabilmente nella lentezza verbosa e in personaggi legnosi, semplici funzioni al servizio del gioco dialettico. Il suo obiettivo non è eccitare e confondere gli animi con l’adrenalina dell’azione, bensì asciugare l’emozione e mostrare la stoffa di cui sono fatte le scelte, complesse, opinabili e ambigue come la realtà.

Il film fa vedere gli effetti della violenza senza eufemismi: non per sensazionalismo, ma per far comprendere a quali risultati conducano determinate decisioni. Soprattutto Il diritto di uccidere, raccontando conflitti perennemente sotto l’occhio delle telecamere, ricorda quanto l’atto del vedere non sia neutrale. Lo sguardo forma opinioni, orienta scelte, spinge all’azione. Lo sguardo ha implicazioni morali. Per cui lo spettatore, compreso quello cinematografico, non può pensare di essere un testimone passivo, estraneo alle impegnative conseguenze di gesti che riguardano la collettività.

https://youtu.be/WcMag8Lgu68