Julieta: il ritorno di Pedro Almodóvar con un mélo tutto al femminile

Tratto dai racconti del premio Nobel Alice Munro, il film del maestro spagnolo è una variazione sui suoi temi prediletti. Emozioni, sentimenti, lutti, dispiegati in una storia dagli usuali, calibrati incastri. Un gioco alla Almodóvar, ma meno appassionato. E il risultato delude un po’.

Julieta Almodóvar ritorna al mélo tutto al femminile

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In Julieta Pedro Almodóvar parte da tre racconti della scrittrice canadese premio Nobel Alice Munro contenuti nella raccolta In fuga (Fatalità, Fra poco e Silenzio), incentrati sul solo personaggio di Juliet, che il regista trasforma in Julieta, spostando l’azione dal freddo Ontario a Madrid.

Julieta (Emma Suárez) è un’elegante cinquantenne dalla vita apparentemente tranquilla, sul punto di trasferirsi in Portogallo col compagno (Darío Grandinetti). La messinscena crolla miseramente quando incontra casualmente una vecchia amica della figlia: così scopriamo che Julieta non le parla da più di dieci anni, da quando la ragazza è sparita per una crisi mistica che le ha cambiato la vita. Julieta allora abbandona l’amorevole compagno e comincia una severa ricognizione del proprio passato, scrivendo una lettera alla figlia lunga come un romanzo. Così parte il racconto della giovane Julieta (Adriana Ugarte): il suo amore per un marinaio (Daniel Grao), la nascita di Antía, la rottura tragica dell’idillio della coppia.

Facile capire cosa abbia attratto Almodóvar nei racconti della Munro, che si fondono naturalmente con le sue ossessioni, permettendogli di tornare narrare il prediletto universo femminile in un cortocircuito melodrammatico di passato e presente. Il “ritorno a casa”, stilistico e tematico, è palese sin dalla prima inquadratura di Julieta d’un drappeggio rosso, che cita l’attacco di Parla con lei: lì si trattava del sipario d’un teatro, qui è la camicetta della protagonista sotto cui palpitano sopite commozioni sul punto di riaffiorare. E la storia dispone con sapienza calibrata la sua tastiera emotiva, attraverso un gioco di rimandi e corrispondenze tipicamente almodovariano.

La vita di Julieta è scandita dai rintocchi della morte – a partire dal suicidio d’uno sconosciuto sul treno –, dagli atti mancati, parole taciute, sentimenti introiettati che causano sensi di colpa che si ripercuotono sulla relazione con la figlia e gli uomini della sua vita. Sono in linea con lo stile narrativo del regista gli incontri improvvisi, gli accadimenti incontrollabili che, in un intreccio di caso e destino, trasformano la vita dei personaggi conducendola verso un doloroso fallimento.

La cornice è una Madrid molto diversa dall’esuberante città del giovane Almodóvar: una capitale dai colori raffreddati, un teatro meno accogliente rispetto al quale la protagonista prova una sensazione quasi d’estraneità. Julieta deve riconquistare la familiarità con la propria storia attraverso un percorso a ritroso verso luoghi e memorie del passato. E nel gioco di sdoppiamento del personaggio, la Julieta giovane e quella matura, c’è uno dei segni caratterizzanti del film. Julieta è “una donna che visse due volte”, spezzata tra due età e due caratteri che non dialogano l’uno con l’altro. Infatti, con trovata fortemente simbolica, Almodóvar sottolinea l’incomunicabilità tra le due donne nella sequenza in cui passa dall’una all’altra con un vertiginoso salto narrativo e temporale, che restituisce anche il senso d’ingannevole ferocia del tempo, che passa improvviso e travolge indifferente le vite.

Nella composta tavolozza cromatica appaiono i rossi tipici di Almodóvar, squarci emotivi e di senso da cui affiora la necessità di rompere la finzione dell’esistenza strutturata in cui Julieta s’è imbozzolata. Al film, però, manca proprio una più decisa rottura dell’ordine e la capacità di manifestare l’urgenza espressiva del proprio sotterraneo dolore, che invece stinge in un racconto troppo composto. Così Julieta nel disporre la recita d’un mondo compito e garbato – il salotto borghese coi volumi d’arte in bella vista, mentre si beve del vino dal calice giusto – sembra poi restarne quasi soffocato. Il film non sprigiona il suo cuore incendiario, tra marinai fascinosi e taciturni e onde che s’infrangono sulla scogliera che sanno più di maniera che di melodramma. Il finale allora, che non sveliamo, può tanto essere inteso come il colpo d’ala d’un film coerentemente reticente, quanto sembrare il segno dell’incapacità di trovare le parole che diano corpo al dramma represso. Così, come la simbolica statuetta che compare all’inizio del film, Julieta resta incartato in un cellophane stilistico ed emotivo che lo rendono distante e insapore.