Al di là delle montagne: un affresco mélo sulla Cina contemporanea

Jia Zhang-ke, già vincitore di un Leone d’oro, racconta un triangolo amoroso in tre atti sullo sfondo della Cina del miracolo economico. Dal 1999 al futuribile 2025 la storia di una paese in cui progresso e ambizioni hanno spazzato via i sentimenti umani. Un film troppo didascalico, più importante che bello.

Al di là delle montagne mélo sulla Cina contemporanea

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Parte come un triangolo mélo Al di là delle montagne di Jia Zhang-ke (2015: il titolo originale significa “i vecchi amici sono come la montagna e il fiume”). Siamo a Fenyang – città natale del regista – nel 1999: Tao (Zhao Tao, moglie del regista, vincitrice del David di Donatello nel 2012 per Io sono lì di Andrea Segre) è l’oggetto del desiderio dell’ambizioso Zhang (Zhang Yi) e del timido minatore Liangzi (Liang Jing-dong). Tao sposa Zhang, hanno un figlio che chiamano Dollar, ma il matrimonio non dura e la separazione allontana il bambino dalla madre. Intanto Liangzi si ammala di cancro. Una volta cresciuto, franano anche i rapporti tra Dollar, ormai australiano e anglofono, e il ricco padre Zhang. Il “miracolo economico”, insomma, trasforma la vita materiale dei protagonisti, ma ne incrudelisce quella emotiva.

Al di là delle montagne è un affresco della Cina contemporanea in tre atti – 1999, 2014, 2025 –, nei quali le emozioni dei protagonisti corrispondono alle trasformazioni socio-economiche. Tre giovani all’altezza del 1999 felici e speranzosi, quando l’embrionale capitalismo si manifesta con l’eccitazione di una promessa. Il 2014 vissuto da adulti, quando lo sviluppo ha plasmato un assetto sociale straniante, i cui effetti sono, simbolicamente, la malattia di Liangzi e il distacco tra Zao e il piccolo Dollar. L’estraniamento si esaspera al punto che nel 2025 la storia cinese si svolge sullo sfondo australiano e in un’altra lingua, l’inglese, l’unica parlata dal ventenne Dollar (Dong Zijian) in rotta col padre e alla ricerca di punti di riferimento.

Al di là delle montagne è reso più complesso dalla scelta del regista di filmare in tre formati diversi per ognuna delle epoche, il ristretto 1.33 per il 1999, formato panoramico 1.85 per il 2014 e sontuoso CinemaScope 2.35 per il 2025. Il che fornisce subito una chiave di riflessione metacinematografica al racconto, accompagnata da un effetto di ribaltamento ironico: perché il 1999 visionario e ricco di futuro è inscatolato in un formato asfittico, mentre agli scenari ariosi di un’Australia in CinemaScope corrisponde un 2025 incupito e povero di aspettative.

Jia Zhang-ke precisa il suo discorso critico verso la “mutazione antropologica” della Cina del nuovo millennio, portato avanti in film di spoglio realismo dalle sottili venature fantastiche, come Still Life (Leone d’oro nel 2006). Nei salti temporali e stilistici di Al di là delle montagne si respira il senso di una trasformazione così repentina da travolgere personaggi incapaci di sintonizzare i sentimenti sul ritmo degli eventi, schiacciati da una modernità cui l’unica risposta segue la direzione della memoria e delle radici.

Lasciano però perplessi gli elementi didascalici di Al di là delle montagne: il nome del ragazzo, i simboli capitalistici di cui si circonda Zhang, le allegorie dell’aereo che precipita e della tigre in gabbia, Tao che non riesce più a cantare, l’incomunicabilità tra padre e figlio. Il risultato è un quadro a tratti affascinante ma confinato in una griglia troppo programmatica, un teorema molto giudicante costruito con ammirevole consapevolezza ma senza una curiosità verso cose e persone che lasci spazio alla sorpresa.