Il miglio verde: stasera in tv Tom Hanks incontra l’uomo dei miracoli

Appuntamento alle 21 su Iris con il film di Frank Darabont in cui Hanks nel braccio della morte incontra un condannato dai poteri miracolosi. Come l’altra opera del regista, “Le ali della libertà”, racconta un mondo in cui persino in carcere e nell'animo di uomini insospettabili albergano umanità e poesia.

Il miglio verde con Tom Hanks

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Le ali della libertà (1994) e Il miglio verde (1999) hanno creato la fama del regista Frank Darabont: addirittura il primo dei due film guida la classifica dei lettori dell’Internet Movie Database – sarebbe insomma il miglior film della storia del cinema, giudizio un po’ azzardato – e il secondo si difende con una prestigiosa quarantesima posizione. Entrambe le pellicole sono tratte da racconti di Stephen King e non è difficile cogliere rimandi e parallelismi tra di loro: l’ambientazione carceraria; una vicenda incentrata sull’amicizia tra un bianco e un nero; la passione per il cinema, che non si riduce alla citazione cinefila ma assume un ruolo centrale nei racconti (la short story di King alla base de Le ali della libertà s’intitola infatti Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank): la presenza degli animali come personaggi essenziali.

Le due storie, soprattutto, sono accomunate da un tono a metà tra realismo e favola, che racconta l’universo concentrazionario della prigione nel pieno rispetto dei clichés del genere carcerario, con le gerarchie feroci, i secondini aguzzini, i soprusi tra detenuti; ma poi, nel bel mezzo di quell’ambientazione brutale e apparentemente senza speranza, fa affiorare brandelli di umanità, che spiazzano lo spettatore e gli ricordano che la vita riesce sempre a sorprenderci e contiene qualcosa di miracoloso. Cos’è se non un miracolo la storia dell’ergastolano non colpevole Andy Dufresne (Tim Robbins) de Le ali della libertà, che rivoluziona la vita della prigione aprendo in essa spazi di bellezza – la biblioteca –, stabilisce una profonda amicizia con un assassino (Morgan Freeman) e riesce alla fine a evadere con un piano bizzarro, metodico e lentissimo?

Il miglio verde, ambientato alla metà degli anni Trenta tematizza e rende esplicito questo aspetto miracolistico, attraverso il personaggio di John Coffey (Michael Clarke Duncan, nel ruolo della sua vita), un gigante nero e analfabeta condannato alla pena capitale – anche lui per un delitto che non ha commesso – che possiede un inspiegabile dono da guaritore. Nel braccio della morte, detto il miglio verde perché il corridoio che conduce alla sedia elettrica ha il pavimento di quel colore, i secondini, soprattutto Paul Edgecombe (Tom Hanks, impeccabile), imparano a rispettarlo e volergli bene.

La storia è tutta qui: a movimentarla ci sono solo i personaggi cattivi, un secondino spregevole, raccomandato e ovviamente crudele e vigliacco (Doug Hutchison), e uno spietato giovane criminale, al fondo uno sbandato, che aspetta d’essere giustiziato (Sam Rockwell). Il miglio verde è semplice e lineare, eppure ha una durata da kolossal: ben tre ore, con una lentezza studiata e metodica identica a quella dell’evaso a rallentatore Andy Dufresne, cifra espressiva di un regista, Darabont, che ha bisogno di costruire la storia e l’evoluzione dei rapporti tra i personaggi per spostamenti impercettibili e millimetrici, che donano all’insieme un sapore ancora più fiabesco ed enigmatico.

Entrambi i film, pur raccontando storie di violenza, con sequenze anche raccapriccianti – ne Il miglio verde c’è un’esecuzione sulla sedia elettrica particolarmente cruenta – contengono un insopprimibile senso di umanità, e cercano ostinatamente la misteriosa bellezza dell’esistere. È quella che spinge l’uomo perbene Edgecombe a prendere a cuore il caso di John Coffey perché, dice, “Io non credo che Dio metterebbe un dono del genere nelle mani di un uomo che uccide bambini”. Ed è con lo stesso spirito ottimista e ingenuo che Coffey, una volta fuori dal braccio della morte, osserva con meraviglia la magnificenza del creato, il cielo stellato sopra di lui e l’erba profumata ai suoi piedi.

Il miglio verde procede con il suo ritmo placido e assorto, affidandosi all’idea che ogni uomo sia esattamente uguale a quel che sembra: lo spontaneo gigante Coffey è palesemente un prodigio della natura – e le inquadrature dal basso di Darabont enfatizzano la sua eccezionalità –, i due cattivi hanno stampato sul volto un ghigno d’inflessibile malvagità, Edgecombe è, sin nel lampo del suo sguardo comprensivo, un uomo retto. Il risultato finale è un racconto accogliente, con un punto di vista conciliante e semplice – che per questo può suonare dolciastro e irritante – e un’allegoria di fondo un po’ ingombrante: la vita è come il “miglio verde”, un percorso impervio ma esaltante di sofferenze e miracoli che ogni uomo attraversa nella sua lunga – talvolta troppo lunga – esistenza.