Zona d’ombra: in una storia vera Will Smith smaschera il marcio dello sport Usa

Un medico nigeriano che lavora negli Usa scopre una patologia che mette a rischio la salute dei giocatori di football. La potentissima NFL vuole insabbiare tutto, ma il dottore non si piega. Una storia vera che racconta la corruzione di un paese però sempre capace di produrre i propri anticorpi.

Zona d’ombra la scomoda verità di Will Smith

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In Zona d’ombra – Una scomoda verità Will Smith è Bennet Omalu, neuropatologo forense nigeriano che lavora a Pittsburgh. Eseguendo un’autopsia su una leggenda del football americano individua una patologia cui dà il nome di Cte, encefalopatia cronica traumatica. Il medico vuole porre all’attenzione dell’opinione pubblica il grave rischio che corrono gli atleti in uno sport che li sottopone a sollecitazioni distruttive (il titolo originale, Concussion, vuol dire “commozione cerebrale”). Naturalmente la NFl, l’associazione professionistica del football americano, un business di dimensioni miliardarie, vuole insabbiare la questione. Chi avrà la meglio?

Zona d’ombra è “tratto da una storia vera”, dicitura che appare sempre più spesso nei film. Come mai? Forse poiché in un’epoca in cui, come si usa dire, tutte le storie sono state già raccontate, l’unico serbatoio narrativo originale è una realtà che supera la fantasia. È anche possibile che, in un tempo in cui la tecnologia consente di creare storie fantastiche con effetti mirabolanti, sorga nel pubblico un’esigenza inversa di racconti a misura d’uomo. Perché gli spettatori non vogliono solo evadere, ma hanno bisogno di vicende in cui rispecchiarsi. Allora la dicitura “tratto da una storia vera” è quasi un patto di veridicità, che lega fiduciosamente il pubblico alla narrazione.

Nel caso di Zona d’ombra è il caso di sottolineare che di storia vera si tratti: perché sembra incredibile lo scontro tra il medico nigeriano, gentile ma caparbio – ha talmente rispetto dei morti da parlare con loro (la cosa però sa tanto di aspetto “romanzato”) – e il gigante Nfl. Grande è l’enfasi posta sul caso giornalistico, anche perché il regista Peter Landesman è un ex reporter investigativo. Col risultato che a tratti viene da pensare a Insider –il parallelo tra Nfl e multinazionali del tabacco affiora esplicitamente.

Il fulcro di Zona d’ombra è naturalmente il dottor Omalu. Da un lato il suo atteggiamento “africano”, educato, formale, profondamente religioso, è alieno al mondo aggressivo del business sportivo – così sembra che il film voglia criticare un modello sociale ipercompetitivo, disposto a sacrificare la salute degli atleti sull’altare del profitto. Dall’altro, però, Omalu ha un attegiamento determinatissimo in linea con la rappresentazione canonica dell’americano volitivo e ambizioso – il medico sottolinea come abbia sempre desiderato vivere negli Stati Uniti.

Attraverso questa figura singolare, Zona d’ombra costruisce un ritratto ambivalente, e un po’ ambiguo, dell’America: un paese cadenzato dalla legge feroce del guadagno che però, grazie alla sua natura sociale profondamente inclusiva, è capace di produrre i suoi stessi anticorpi. In tal senso è esplicito il dialogo in cui il superiore di Omalu, interpretato dal leggendario Albert Brooks, dice al medico che lui incarna il vero spirito dell’America, proprio in quanto straniero capace di farsi strada rettamente nel paese delle opportunità. Perché essere americani è una condizione dell’anima, non una questione di passaporto. Peccato che col doppiaggio si perda il lavoro compiuto da Will Smith sulla pronuncia nigeriana di un inglese dolce e musicale, essenziale per comprendere il carattere del personaggio e gli aspetti più personali di un thriller comunque piuttosto prevedibile.