Il Padrino: per tre sere in tv c’è la più celebre saga della storia del cinema

Da giovedì a sabato alle 21.10 Paramount Channel trasmette la trilogia criminale firmata da Francis Coppola. "Il Padrino" è un lunghissimo film di nove ore, illuminato dal talento di Marlon Brando e Al Pacino. Ed è anche una magniloquente riflessione sul male e il suo sinistro fascino. Imperdibile.

Il Padrino la trilogia con Brando e Pacino

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Paramount Channel trasmette in tre prime serate consecutive, da giovedì a sabato, la saga de Il Padrino di Francis Ford Coppola, la storia criminale lunga quanto il Novecento di una famiglia di mafiosi italoamericani, i Corleone. Ed è giusto vederle così le tre pellicole, senza soluzione di continuità: perché a uno sguardo retrospettivo gli episodi, nati come film indipendenti, realizzati a distanza l’uno dall’altro (Il Padrino uscito nel 1972, Il Padrino – Parte III addirittura nel 1990), assumono sempre più il sapore di un unico lunghissimo film, comprensibile solo nella sua unitarietà (e infatti domenica 24 a partire dalle 19 Paramount trasmette i tre film uno dopo l’altro, nella versione maratona).

Il Padrino è un progetto fuori misura, ben nove ore di durata complessiva, ispirato a quella filosofia di titanismo produttivo connaturata a Coppola (basti pensare all’impresa di Apocalypse Now). Ma a guardarlo bene non sembra tanto la classica epopea – sebbene ci sia il tipico sviluppo cronologico e l’avvicendarsi di vecchie e nuove generazioni di protagonisti –, bensì una storia ossessivamente attorcigliata su se stessa, al punto che Il Padrino Parte II e III possono essere considerati tanto dei seguiti che dei remake del primo film.

Dall’uno all’altro episodio, infatti, si ripetono quasi millimetricamente le situazioni. Le grandi scene di massa dei momenti conviviali sono poste sempre in apertura: il matrimonio della figlia di don Vito Corleone (Marlon Brando) ne Il Padrino, la prima comunione del figlio di Michael Corleone (Al Pacino) ne Il Padrino – Parte II, la festa per l’alta onorificenza di cui è stato insignito dalla Chiesa un boss Michael in cerca di rispettabilità ed entrature vaticane ne Il Padrino – Parte III. E poi ritornano le riunioni tra i boss, sempre sul filo di sorrisi e abbracci velenosi; i passaggi di leadership, tra Brando e Pacino, tra Pacino ed Andy Garcia; le ineluttabili trame di tradimenti e vendette; le stragi che i Corleone orchestrano con architetture complicate e feroci, ammazzando contemporaneamente i loro nemici in luoghi diversi.

Ne Il Padrino non ritornano solo situazioni ma anche parole. È singolare che una vicenda così lunga e stratificata sia articolata su pochissimi concetti continuamente richiamati. Due su tutti: business e famiglia, affari e sentimenti, dove il secondo diventa la patetica foglia di fico posta a giustificazione dell’altro. Parlando della sua vita criminale, Michael Corleone così si discolpa con l’ex moglie Kay (Diane Keaton), ne Il Padrino – Parte III: “Amavo mio padre. Avevo giurato di non diventare come lui. Ma era in pericolo. Cosa potevo fare? E dopo, eravate tu e i ragazzi a essere in pericolo”. La famiglia come strategia di autoassoluzione del boss, che ammanta di nobiltà scelte dettate da sete di potere. Tanto più che è proprio contro il sangue del suo sangue – il fratello Fredo (John Cazale) – che si scatena la fredda rabbia vendicatrice di Michael. Ma in fondo, come viene ripetuto più volte, “non è un fatto personale, sono solo affari”.

Quindi il motore reale di ogni azione è il denaro – Coppola costruisce la sua metafora della mafia come specchio distorto ma coerente dello spirito del capitalismo –, la violenza è il tramite per ottenerlo e la famiglia è il valore posto a copertura di tutto. Un atteggiamento ipocrita che colora la vicenda di tinte luttuose, da tragedia greca o shakespeariana, in cui la brutalità s’indirizza contro coloro che a parole si vorrebbero proteggere. È da qui che origina la schizofrenia del racconto, che si ripiega su se stesso proprio perché è incardinato sull’insanabile contraddizione di fondo tra le vere, feroci intenzioni dei protagonisti e i nobili moventi fittizi. Quindi la storia non può essere esposta che nella forma dell’ossessione, con accadimenti che si ripetono identici, generazione dopo generazione, perché nulla di sostanziale realmente muta.

Non tutto però resta letteralmente uguale, perché Coppola inocula attraverso la forza dello stile un’insopprimibile aria di disfacimento, accentuata da un uso del colore mortifero: dal nero profondo de Il Padrino (Brando costantemente annegato in una luce di tenebra) al dominante tono giallastro de Il Padrino – Parte II, segno di un mondo corrotto sulla via della putrefazione (Pauline Kael nella sua recensione si chiese: “è una nostra impressione o il viso di Michael sta cominciando a disfarsi?”). Un altro importante critico statunitense, David Thomson, sempre a proposito dell’uso del colore da parte di Coppola, ne lamentò l’opulenza affettata, che dava all’insieme il sapore di un’“abbagliante soppressione di vitalità”. La sensazione di un mondo quasi pietrificato effettivamente emerge ne Il Padrino, ma più che un difetto è un obiettivo cercato, per trasmettere il senso d’una decadenza iscritta sin dalle origini nella famiglia, ottenuto grazie a un gusto della composizione visiva dagli echi viscontiani.

Quello di Coppola non è uno sguardo antropologico alla Scorsese, ma mitologico (è la ragione per cui il film non piacque al boss Tommaso Buscetta: “Perfetto com’è, tutto a latte e miele. Con quel baciamano al giovanotto diventato boss della famiglia che non ho mai visto nella realtà”) e, viste le similitudini con Il Gattopardo, pericolosamente tendente all’elegia. Il Padrino ritrae dei personaggi bigger than life, don Vito e Michael Corleone, che esercitano un innegabile fascino sullo spettatore: perché incarnati da protagonisti magnetici, Brando e Pacino, e perché raccontati e inquadrati in modi che, se non ne esaltano, ne fanno emergere la sinistra grandezza.

Alla messinscena della violenza dovrebbe essere demandata la presa di distanza dai comportamenti mafiosi, per scongiurare qualsiasi processo di identificazione dello spettatore con i malvagi protagonisti. Su questo piano la saga de Il Padrino decreta un nuovo statuto della rappresentazione della violenza al cinema. Che è di una brutalità sanguinaria che mai s’era vista prima: basti pensare alla morte di Sonny (James Caan) crivellato di colpi ne Il Padrino, il cui vero antecedente è la morte di Bonnie e Clyde nel capolavoro Gangster Story di Arthur Penn. Ma in realtà anche qui permane qualcosa di insinuante e affascinante, in virtù d’una messinscena calibratissima che insiste sulle parentele tra l’esecuzione di un nemico e l’“esecuzione” musicale, come dimostra in modo lampante la sequenza de Il Padrino – Parte III con l’ardita coreografia di assassinii consumati durante una Cavalleria rusticana di Mascagni. Con il risultato che persino la violenza acquista tratti di straniante dignità estetica.

Il Padrino di Coppola si muove lungo i binari di un’ambiguità almeno in parte voluta. Racconta la ferocia di una famiglia malavitosa e la forza seduttiva del cinema, che rischia di rendere attraente ciò che dovremmo da spettatori rifiutare per principio – la fascinazione del male sarà il nocciolo anche del colonnello Kurtz di Apocalypse Now, altro personaggio demandato a un Brando scolpito nell’ombra. Coppola riesce con questa trilogia – a partire dal successo planetario del primo episodio, tra i maggiori blockbuster della storia del cinema – a definire l’essenza del suo stile cinematografico, che tiene insieme magniloquenza da kolossal e sottigliezze da cinema d’autore. Film ai quali s’accorda la definizione coniata da Vittorio Spinazzola per film come La dolce vita e Il Gattopardo di “superspettacolo d’autore”, capaci cioè di catturare l’interesse del grande pubblico senza abdicare all’ispirazione d’artista.

La saga de Il Padrino è ancora oggi un punto fermo insuperato, un crocevia di tendenze e stili a cavallo tra Europa e America, vecchia e nuova Hollywood, cinefilia e spettacolo, cultura alta e popolare. Impossibile che, a partire da materiali e moventi così eterogenei, non contenga ambiguità. Ma se non riesce a mettere tutti d’accordo è però capace di mettere tutti davanti allo schermo, come conferma il costante successo intergenerazionale di una trilogia che spinge a misurarsi con l’eterna storia – e il fascino – del male.