Race – Il colore della vittoria: il mito di Jesse Owens rivive sul grande schermo

Il regista Hopkins racconta la storia dell’atleta nero che vinse le Olimpiadi sotto gli occhi di Hitler. Così incredibilmente vera da sembrare un romanzo. “Race” è uno spettacolo hollywoodiano con accettabili dosi di realismo. Non censura gli aspetti più scomodi. Ma aggiunge un pizzico di retorica.

Race Il colore della vittoria il mito di Jesse Owens

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In Race – Il colore della vittoria, biopic di Stephen Hopkins sulla vicenda del campione olimpico di atletica Jesse Owens, c’è una sequenza che ha il sapore d’una dichiarazione d’intenti. Quella in cui la regista Leni Riefenstahl, che sta girando Olympia, il film sulle Olimpiadi di Berlino del 1936, chiede a Owens di tornare sulla pista nello stadio vuoto e fingere di correre, naturalmente per fare delle riprese ravvicinate da inserire nel montaggio finale. Owens teme che questa finzione sia un inganno ai danni degli spettatori. La Riefenstahl gli risponde che lui le gare le ha vinte davvero e quindi questi spezzoni supplementari sono semplicemente un mezzo per “documentare” più accuratamente le sue straordinarie prestazioni, senza tradirne il senso.

È una scena che sembra inserita deliberatamente per prevenire possibili critiche a Race. Un classico film hollywoodiano, certo, che racconta con enfasi una vicenda edificante, nel quale certe sequenze sembrano fin troppo esemplari. Eppure, cosa importa qualche inserto romanzato, visto che la sostanza della vicenda è autentica?

È reale, per esempio, che il nero Owens (Stephan James) fu allenato dal bianco Larry Snyder (Jason Sudeikis) che, avendo perso l’occasione di partecipare alle Olimpiadi del 1924, visse i successi del pupillo come un risarcimento per il suo fallimento. Pare la classica storia americana della “seconda occasione”, e forse lo è: ma è vera. Come è autentica l’amicizia tra Owens e Carl Luz Long, il rivale tedesco con cui ingaggiò un cavalleresco duello sportivo. Chiaramente il film ci ricama un po’ su, ma è una cosa successa davvero.

Il punto è che la storia di Owens è talmente incredibile da sfiorare per forza l’inverosimiglianza. Ma quale sceneggiatore avrebbe avuto l’impudenza di inventare l’impresa del povero nero dell’Alabama che trionfa sotto il naso di Hitler e Goebbels, dimostrando quanto ridicola fosse la dottrina della superiorità della razza ariana?

A guardarlo attentamente, poi, Race non è nemmeno così evasivo. Racconta che Owens, con figlia e compagna a carico, ebbe una sbandata per un’altra donna – a evitare il ritratto da santino. Registra il razzismo dell’America che al plurimedagliato campione non concesse omaggi ufficiali. Mostra le opacità legate alla scelta del comitato olimpico statunitense di partecipare ai Giochi – inizialmente s’era paventato il boicottaggio –, frutto dell’insistenza di un suo membro, Avery Brundage (Jeremy Irons), un costruttore che intrattenne discutibili rapporti d’affari coi nazisti, per i quali dopo la guerra fu sospettato di collaborazionismo.

Race è una macchina spettacolare che non manca di retorica – come l’Owens dubbioso cui la moglie dice: “Sei nato per correre, ascolta il tuo cuore”. Ma il film non elude i temi impegnativi: la povertà della comunità afroamericana e la sua presa di consapevolezza politica (c’è anche la NAACP, la storica associazione per la promozione delle persone di colore), il razzismo dei bianchi, l’antiebraismo nazista. C’è spazio persino per una timida riflessione sull’ambiguità del cinema quale strumento di documentazione della realtà, attraverso il controverso personaggio della Riefenstahl. Elementi che rendono Race un film meritevole di maggiore rispetto di quanto sulla carta si fosse disposti a concedergli.