Perfetti sconosciuti: tentativi maldestri di nuova commedia all’italiana

Un gruppo di vecchi amici condivide conversazioni e messaggi dei cellulari. E la cena si trasforma in un gioco al massacro di segreti inconfessabili. Il regista Genovese punta al ritratto amaro d'una generazione. Ma la sceneggiatura riduce tutto a un problema di corna. Ottimo l’affiatatissimo cast.

Perfetti sconosciuti commedia di Paolo Genovese

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Quasi 5 milioni al box office nella prima settimana per Perfetti sconosciuti, un dato lusinghiero per il nuovo film di Paolo Genovese (Immaturi, Tutta colpa di Freud, Sei mai stata sulla Luna?). Non è difficile comprendere le ragioni del successo: il pubblico si è riconosciuto nella cena tra amici quarantenni che – galeotto fu il telefonino – deflagra mettendo in luce meschinità e cattiverie di tutti. La tranquilla serata tra gnocchi e polpettone si trasforma in una stanza delle torture perché la padrona di casa, la psicologa Eva (Kasia Smutniak), sposata al chirurgo plastico Rocco (Marco Giallini), ha la malaugurata idea di proporre un gioco: quello di mettere i cellulari sul tavolo per condividere pubblicamente conversazioni e messaggi.

Chi non ha un segreto da nascondere? Quando il privato si ribalta nel pubblico affiorano magagne, confidenze imbarazzanti, tradimenti. E l’apparente armonia della combriccola di Perfetti sconosciuti si sfalda, rivelando doppiezze e punti deboli di ognuno. Va in crisi il rapporto di lungo corso tra Lele e Carlotta (Valerio Mastandrea e Anna Foglietta) e quello dei neosposini, apparentemente innamoratissimi, Bianca e Cosimo (Alba Rohrwacher ed Edoardo Leo). E si capisce perché Peppe (Giuseppe Battiston) sia venuto a cena senza la nuova fidanzata.

Perfetti sconosciuti punta a un dispositivo tipico della commedia all’italiana: la cattiveria dello sguardo, per indagare chirurgicamente sotto la superficie della simpatia un po’ istintiva un po’ recitata degli italiani brava gente e mostrarci di che pasta siamo fatti veramente. Di qui anche il ricorso al meccanismo del racconto corale concentrato in uno spazio definito, nel quale era maestro Ettore Scola.

Ma il risultato è ben lontano da quegli esiti. Non che manchino qualità a Perfetti sconosciuti. La scioltezza della regia che, pure obbligata nei confini di un appartamento, riesce a trovare un ritmo e un montaggio che fanno dimenticare la pesantezza dell’unità di luogo teatrale. E ancora di più l’ottima prova di un gruppo di attori maturi, credibili e affiatati, che soprattutto nei tanti assoli restituiscono un senso di autenticità ai personaggi.

Purtroppo per il resto Perfetti sconosciuti è deludente. Vado per punti. Primo: la sceneggiatura inanella una quantità inverosimile di colpi di scena che la metà basta (forse cinque autori sono troppi). Secondo: gira e rigira è tutta una questione di corna, come se l’inizio e la fine di ogni male e ogni sofferenza in salsa italiana stesse sempre e soltanto sotto le lenzuola. In Perfetti sconosciuti non ci sono angosce esistenziali, nessuno manifesta interessi di tipo sociale o politico in senso lato. L’unica preoccupazione è che la coppia non scoppi: finché regge quella, tutto funziona magnificamente. È un mondo di prospettive limitatissime, che non superano mai i confini dell’appartamento, nel quale i protagonisti sono come barricati, senza comunicare, fisicamente o idealmente, con la realtà esterna. E l’unico tema di portata più generale, che riguarda Peppe, viene annacquato dai qui pro quo ridanciani d’una gag incentrata su uno scambio di cellulari.

Terzo, il didascalismo: il gruppo si affaccia sulla terrazza (ma il dolente Scola è lontano) a vedere l’eclisse, simbolo scolastico in cui leggere a scelta speranze, doppiezze, oscurità, aridità sentimentale. E non manca l’immagine, sbucata fuori da uno spot sui valori veri d’una volta, della coppia di vecchietti amorevoli insieme da una vita, monito indirizzato alla grettezza della generazione fasulla dei quarantenni.

Quattro: il discorso sulla tecnologia resta abbozzato, evasivo. Più volte viene ripetuto un pistolotto sul cellulare “scatola nera” delle nostre vite. Che significa? Che è tutta colpa dei telefonini? O piuttosto la responsabilità di quel che facciamo della vita resta integralmente nelle nostre mani?

Come ritratto d’una generazione Perfetti sconosciuti è fasullo, perché manca completamente il contesto sociale, il paese reale di cui i protagonisti dovrebbero essere esemplari paradigmatici. Il loro mondo si riduce a un perimetro che va dal bagno al tinello, passando sempre e comunque per la camera da letto, centro emotivo degli interessi degli italiani a misura di Paolo Genovese e degli sceneggiatori. E non si dica che è un limite connaturato a una storia che sceglie un’unità di tempo e luogo. Senza citare ancora Scola, si pensi a un film recente dalla medesima struttura, il bellissimo Ritorno a L’Avana di Laurent Cantet. Lì le biografie dei singoli personaggi sono il punto di confluenza della storia del paese, sintetizzano il carattere e il temperamento di un’intera società. Privato e pubblico si annodano e si riflettono l’uno nell’altro. Anche lì c’è una terrazza: che non serve per guardare inebetiti l’eclisse o farsi i selfie, ma è il punto di osservazione su una realtà più vasta che non è lasciata comodamente fuoricampo e preme sulle esistenze, le scelte dei singoli, in una continua dialettica tra sfera personale e collettiva.

I protagonisti di Perfetti sconosciuti al contrario sono tutte monadi autosufficienti, senza connessioni con l’esterno. L’unico punto di superamento dell’individualità è quello della sfera sentimentale: relazioni di coppia, rapporti figli-genitori, preferenze sessuali. Una dimensione da familismo amorale, che non conosce inquietudini e preoccupazioni che travalichino i legami di sangue e affettivi. La società, in Perfetti sconosciuti, non esiste. Magari proprio per questo il film potrebbe definirsi uno specchio del paese. Che, fosse così, sarebbe di una superficialità (e un egoismo) allarmante.