The End of the Tour: sulle tracce di David Foster Wallace

James Ponsoldt racconta il grande scrittore americano adattando il libro-intervista di David Lipsky, che accompagnò Wallace nel tour promozionale di “Infinite Jest”. Un film parlatissimo, che cerca di mostrare, con affetto e malinconia, l’uomo privato e non la sua immagine pubblica.

The End of the Tour cinque giorni con David Foster Wallace

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Era esattamente come uno avrebbe voluto che fosse la persona che aveva scritto quei libri. Era un vero essere umano, molto più colloquiale e normale di quanto ci si poteva immaginare, vedendo ciò che riusciva ad architettare sulla pagina”. È difficile pensare alla realizzazione di un biopic sullo scrittore americano David Foster Wallace – secondi molti il più geniale della sua generazione, morto suicida nel 2008 – partendo da affermazioni come questa, del suo collega e amico Dave Eggers. È difficile perché Wallace, da questo e giudizi simili, appare come un carattere trasparente, persino indifeso, tutto il contrario dell’idea dei personaggi titanici ed enigmatici di solito protagonisti di racconti biografici.

Forse però l’obiettivo che si pone James Ponsoldt in The End of the Tour e di andare oltre la superficie limpida di un carattere così sottotraccia da apparire persino dimesso, per indagarne la complessità, evidente nelle sue pagine laboriose, tortuose, intelligenti, che invece resta sapientemente – o istintivamente? – occultata nei suoi atteggiamenti quotidiani.

Secondo una linea tipica nel cinema contemporaneo – i film su Zuckerberg e Jobs, per esempio –, The End of the Tour non segue l’arco biografico del protagonista, ma si concentra su un frammento di esistenza. Il punto di partenza è il libro-intervista Come diventare se stessi, di David Lipsky, che per cinque giorni, nel 1996, accompagnò Wallace nell’ultima tappa del tour di lancio del romanzo Infinite Jest, al fine di realizzare un articolo per “Rolling Stone”. Il pezzo non fu mai pubblicato e solo dopo la morte di Wallace Lipsky ritornò sui materiali ricavandone un volume.

The End of the Tour parte dalla notizia della morte, con Lipsky (Jesse Eisenberg, lo Zuckerberg di The Social Network) che ripercorre con la memoria i pochi giorni passati tra Bloomington, Illinois – nella provincia americana in cui Wallace (il comedian Jason Segel) viveva e insegnava – e Minneapolis, ultima tappa del giro di presentazioni. Il film è un confronto tra due uomini, che anche per fisionomia sembrano fratello maggiore e minore, maestro e allievo: da un lato l’autore celebrato, dall’altro l’apprendista con ambizioni letterarie posto di fronte all’artista di cui percepisce, timorosamente, la grandezza.

The End of the Tour è tutto qui: un dialogo fluviale che la regia asseconda senza guizzi autoriali, con l’intenzione, sembrerebbe, di rendersi invisibile per non sovrapporre un punto di vista forte a una materia da cui spera affiori naturalmente un non detto significativo.

Il film registra gli eventi senza una palese dinamica drammatica, nell’attesa di un’epifania. Perché, inutile nasconderselo, nonostante l’esibizione di uno stile sottotono da cinema indipendente, sul racconto aleggiano due domande: qual è l’essenza del genio di Wallace – l’interrogativo di Lipsky – e, ovviamente, quali sono le ragioni del suo gesto estremo – il quesito dello spettatore, molto probabilmente lettore di Wallace.

The End of the Tour comprensibilmente le elude entrambe, reticente come Wallace, che era terrorizzato dall’idea di essere trasformato nell’immagine pubblica dello scrittore famoso. La sua opera riflette costantemente sui temi del pubblico e del privato e su come l’identità venga messa su piazza e tradotta in spettacolo e merce di consumo. Perciò fa di tutto per non essere “usato”: anche se è perfettamente consapevole di essere affascinato dal successo e bisognoso di gratificazione e riconoscimento. Per cui The End of the Tour oscilla tra silenzi e squarci di confessione, dai quali emergono brandelli di autenticità d’una personalità fragile e consapevole, sempre a rischio di dipendenza – dall’alcool, dalla televisione – e alla costante ricerca di un’intimità affettiva.

È un film che si può guardare con un senso di frustrazione, per la sua evasività, dato che non “succede” nulla di davvero rilevante. O, al contrario, apprezzarlo per l’accogliente lentezza, concentrandosi su dialoghi che non aspirano alla paradigmaticità, bensì a dare spazio a comportamenti e gesti restituiti nella loro autenticità non esemplare, ma semplicemente reale (per questo così spesso vediamo Lipsky azionare il registratore, indice sia della veridicità delle parole riportate, quanto del loro essere frutto di un passaggio attraverso un filtro intrinsecamente manipolatorio).

Visto in tale prospettiva The End of the Tour, sotto la superficie fredda come gli scenari innevati di Bloomington, trova il suo calore espressivo e restituisce il ritratto rispettoso e venato di malinconia di Wallace, uno scrittore e un uomo che non avrebbe mai voluto essere ridotto all’immagine pubblica dell’artista sensibile, geniale e sregolato.
https://youtu.be/Qc78Gt-TwM8