Carol: l’amore proibito di Cate Blanchett nell’America degli anni Cinquanta

Dopo “Lontano dal Paradiso”, Haynes racconta un’altra passione omosessuale nell’America degli anni Cinquanta. Il film precedente guardava il mondo con gli occhi del cinema d’epoca, “Carol” cerca un maggiore realismo. Bellissimo visivamente, con due interpreti magnetiche. Ma troppo accademico.

Carol amore proibito di Cate Blanchett

INTERAZIONI: 70

Il romanzo The Price of Salt di Patricia Highsmith da cui è tratto l’acclamato Carol di Todd Haynes, storia di un amore lesbico, fu pubblicato sotto pseudonimo nel 1952 e vendette un milione di copie. Un successo che indica come la società americana degli anni Cinquanta fosse assai più informata e avvertita di quanto siamo soliti pensare. Forse quest’idea d’un paese integralmente asessuato e tradizionalista più che dalla realtà dipende dal racconto che dell’epoca hanno veicolato film, rotocalchi, show televisivi scientemente edulcorati.

L’immagine, appunto, d’un paese perfetto, cellofanato nella sua bellezza tranquillizzante da copertina. Carol getta lo sguardo oltre la copertina, inseguendo la realtà delle cose nella vicenda, ambientata nell’anno del romanzo, di Carol (Cate Blanchett), omosessuale adulta, malmaritata, benestante e consapevole, e Therese (Rooney Mara), giovane commessa con ambizioni di fotografa alla ricerca della sua identità. Benché l’omosessualità non sia tema accettato dalla società dell’epoca, dal film emerge come si tratti di un non detto che però è ben chiaro a tutti: il marito di Carol, Harge (Kyle Chandler), conosce benissimo, pur rifiutandole, le tendenze sessuali della moglie, e in una conversazione (all’apparenza) innocente, il fidanzato di Therese le chiede esplicitamente se sia innamorata di una donna.

I tempi, insomma, benché puritani, erano maturi. Son pur sempre gli anni, il 1948 e il 1953, della pubblicazione del Rapporto Kinsey, la rivoluzionaria ricerca sull’orientamento sessuale maschile e femminile, che illuminò il pubblico statunitense sull’esistenza di comportamenti non eterosessuali. L’obiettivo di Todd Haynes, perciò, è di fotografare – come fa Therese nei suoi scatti in bianco e nero quasi documentari – la realtà direttamente, senza filtrarla attraverso gli occhiali del cinema degli anni Cinquanta, ma sporcandola per quanto possibile di quotidiano.

Per raggiungere l’obiettivo Haynes e il direttore della fotografia Edward Lachman hanno compiuto un lavoro certosino sull’immagine, in primo luogo rifiutando il digitale e filmando in 16 mm, per ottenere una qualità del fotogramma granulosa, fisica, concreta, il più possibile lontana dall’artificialità da Technicolor anni Cinquanta. Come ha dichiarato Lachman, “spesso nei film storici c’è la tendenza a romanticizzare l’epoca. Perché le auto sono sempre lucenti? Non esistevano auto sporche all’epoca? […] Perché in un film storico la finestra attraverso cui guardi è sempre pulita?”. Perciò in Carol gli sguardi sono sempre filtrati da vetrate e finestrini d’auto rigati dalla pioggia, opachi, in immagini che, seppur elegantissime, inseguono una rappresentazione naturalistica della realtà (e naturalmente la sfocatura dei volti, visti come dietro una barriera, suggerisce qualcosa anche della psicologia delle protagoniste).

Carol è solo apparentemente gemello del precedente film di Haynes, Lontano dal Paradiso: che parlava sì di anni Cinquanta e divieti sociali e sessuali (un amore gay e uno interrazziale), ma ricreando quel mondo attraverso lo sguardo cinematografico dei melodrammi espressionisti di Douglas Sirk, nei quali il sovraccarico cromatico serviva proprio a dar voce a emozioni innominabili, pena la censura. In Lontano dal Paradiso, Haynes partiva da quell’immaginario visivo per tenderlo fino al punto di rottura, facendo emergere il non detto, le passioni vietate, criticando un modello di rappresentazione illusorio che non dava scampo a sentimenti non conformisti (e si riferiva ovviamente non solo agli anni Cinquanta).

In Lontano dal Paradiso l’amore tra la bianca Julianne Moore e il giardiniere nero Dennis Haysbert deve restare irrealizzato. In Carol, invece, non c’è scarto tra quello che si vede e le emozioni sottostanti: le due donne, sebbene la seduzione sia piena di cautele, finiranno per consumare una passione senza eufemismi cui lo spettatore assisterà. Il velo d’ipocrisia è stato tolto: e il modo di filmare di Haynes – ispirato, sono ancora parole di Lachman, alle “fotografe che documentarono New York alla metà del secolo, come Ruth Orkin, Ester Bubley, Helen Leavitt e Vivian Maier” – è il tramite che rende possibile un racconto delle emozioni senza dissimulazioni.

Naturalmente non tutto fila liscio nella storia d’amore e il tono melodrammatico è accentuato dalla comparsa di impedimenti nella trama: la battaglia legale che Harge mette in piedi per l’affidamento della figlia amatissima da Carol e una pistola che sbuca improvvisa a creare tensione – secondo il noto principio cechoviano, sempre rispettato dalle sceneggiature matematiche della Hollywood classica, per cui se in una storia appare un’arma si può esser certi che sparerà.

Eppure, nonostante lo straordinario lavoro di autori e attrici (la Blachett ma soprattutto Rooney Mara, d’una trattenuta fragilità sempre sul punto di spezzarsi), Carol resta ancora troppo splendente e pulito. Come se fosse un’impresa disperata quella di scrostare dagli anni Cinquanta la patina di algida e distaccata perfezione che troppo cinema e troppa nostalgia gli hanno appiccicato addosso. Forse il film soffre anche del fatto che la passione omosessuale che racconta ha una ormai, seppur relativa, più ampia ammissibilità sociale, e non basta incorniciarla in un’epoca puritana per innescare il melodramma. La sensazione è che il magnifico Carol resti congelato e intoccabile dietro la sua teca, imbrattata sì come un finestrino d’automobile battuto dalla pioggia, ma ancora troppo immacolata per le nostre abitudini di spettatori contemporanei.