Tootsie: stasera in tv c’è un grande Dustin Hoffman al femminile

Alle 21 su Iris c'è la commedia di Sidney Pollack su un attore che si finge donna. Negli anni Ottanta, dopo il femminismo e il movimento di liberazione omosessuale, era giunto il momento per raccontare nuove identità di genere. E Tootsie fu un passo verso una nuova sensibilità.

Tootsie con Dustin Hoffman stasera in tv

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Nel 1982 escono due film che raccontano una storia singolarmente simile: Tootsie di Sidney Pollack, con Dustin Hoffman nella parte di un attore che per ottenere un ruolo si finge donna; e Victor Victoria di Blake Edwards, nel quale invece Julie Andrews fa una cantante di cabaret che si spaccia per uomo. Se aggiungiamo che l’anno dopo è la volta di Yentl, diretto e interpretato da Barbra Streisand, che si traveste da uomo per poter studiare il Talmud arrivando addirittura a sposare una donna, possiamo dire che nel cinema americano stava succedendo qualcosa di nuovo.

Fino ad allora Hollywood aveva sempre ritratto il rapporto tra maschile e femminile in chiave di rigida opposizione. La commedia classica degli anni Trenta, in particolare, era stata il terreno ideale per descrivere la battaglia tra i sessi, con donne anche assai volitive (pensiamo a Susanna del 1938 di Howard Hawks, col povero Cary Grant ridotto a burattino nelle mani di Katharine Hepburn) ma sempre partendo da una precisa distinzione dei ruoli. Gli sconfinamenti di genere erano assai rari: un caso è quello del “regista delle donne” George Cukor in Il diavolo è femmina (1935), in cui proprio la Hepburn si traveste da uomo, ma naturalmente alla fine tutto ritorna all’ordine costituito.

Si spinse oltre Billy Wilder con A qualcuno piace caldo, nel quale il personaggio di Jack Lemmon, una volta vestiti i panni della donna, ha qualche imbarazzante tentennamento circa la propria identità. Ma Wilder, l’autore più perfidamente irregolare della Hollywood dell’epoca, era un caso isolato: e per lungo tempo, il cinema americano mantenne ai margini lo spinoso tema dell’identità di genere e delle sue possibili declinazioni in una chiave non schematicamente maschio/femmina.

Ma naturalmente i cambiamenti sociali premevano alle porte. Fu determinante negli anni Sessanta la tematizzazione della questione omosessuale nel cinema underground dei Kenneth Anger, Jack Smith e Andy Warhol, che costituì un’implicita messa in discussione dei modelli di rappresentazione solidificati su uomini e donne (e il cinema mainstream se ne accorse velocemente: è del 1970 Festa per il compleanno del caro amico Harold di William Friedkin).

Nel decennio successivo l’altra spallata l’assestò il femminismo, che non si limitò a stigmatizzare i ruoli stereotipati cui era stata confinata la donna nei film americani ma, a partire da un famoso saggio di Laura Mulvey del 1975, Visual Pleasure and Narrative Cinema, spiegò come il cinema hollywoodiano costruisse le proprie storie a partire da uno sguardo maschile dominante. In pratica la macchina da presa riproduceva il punto di vista dell’uomo, e per questo la donna era sempre rappresentata come un oggetto del desiderio, passiva e alla mercé dell’occhio maschile.

Grazie a queste nuove consapevolezze di ordine estetico e culturale, il cinema americano degli anni Ottanta fu pronto a indagare in modo nuovo i rapporti di genere, offrendo una rappresentazione che s’interrogava sull’emergere di soggettività non più univocamente maschili o femminili. E il travestismo fu chiaramente uno dei primi espedienti narrativi escogitati per indagare gli slittamenti sul piano dell’identità.

Tootsie quindi fotografa perfettamente il momento storico: Michael Dorsey (Dustin Hoffman) è un attore bravissimo e maniacale, e per questo è sempre disoccupato. Ma quando si traveste da donna, diventando Dorothy, ottiene una scrittura in una soap-opera. Il film è ricco di battute memorabili, a partire da una sceneggiatura cui mise mano, non accreditata, anche la straordinaria comedienne Elaine May, con immaginabili situazioni imbarazzanti in cui Dorothy deve tenere a bada focosi spasimanti, mentre non può dichiararsi a Julie (Jessica Lange), la compagna di lavoro di cui s’è innamorato.

Quel che più conta in Tootsie è il tratteggio del personaggio di Michael/Dorothy: perché la scontrosità e la pignoleria che, da uomo, erano la sua rovina, trasferite in un’identità femminile diventano il segreto del suo successo. Una volta donna, Michael si trasforma in una sorta di paladino del femminismo: nella soap recita un ruolo di potere ma si rifiuta di trasformarlo nello stereotipo della virago al comando racchia e mascolina, e lotta per ottenere il rispetto del regista Ron (Dabney Coleman), che ha sul set un atteggiamento palesemente sessista. Atteggiamento che, Michael se ne rende conto, è molto simile a quello che lui stesso ha sempre avuto nei confronti delle donne prima di vivere questa singolare esperienza.

Com’è immaginabile, il finale di Tootsie ricolloca tutte le tessere al suo posto “naturale”, vale a dire reintegrando le identità maschili e femminili iniziali, ben individuate e separate. Ma conta la vertigine che il film crea: Pollack si concede tocchi graffianti (Dorothy realizza un servizio fotografico marciando con la bandiera americana sullo sfondo, creando un cortocircuito con altre ambiguità e doppiezze), mette in discussione stereotipi culturali e racconta la sfaccettata complessità del desiderio (cos’è che piace davvero ai maschi attratti da Dorothy?). E ovviamente parte consistente del merito va all’interpretazione di Hoffman che rifugge da qualunque macchiettismo.

Non siamo ancora al ripensamento sistematico delle identità di genere della cultura LGBT e queer ma il primo passo era compiuto. E più di Pollack, l’autore che con maggiore costanza in quegli anni approfondì la questione fu Blake Edwards: che dopo Victor Victoria realizzò Skin Deep (1989), in cui un dongiovanni impenitente va a letto con una culturista che gli chiede come si senta a stare con una donna come lei e lui risponde “come la moglie di Schwarzenegger”; e poi Nei panni di una bionda (1991), nel quale non solo c’è un campione di maschilismo che quando muore si reincarna in una donna, ma soprattutto c’è la trovata, assolutamente geniale, di Dio che parla con una voce insieme maschile e femminile. A quel punto i tempi – e il cinema – erano pronti a ulteriori sviluppi.