Il laureato: stasera in tv il film che lanciò Dustin Hoffman e la Nuova Hollywood

Su Rai Movie alle 21.15 c'è il capolavoro di Mike Nichols. Uno dei film decisivi degli anni Sessanta: perché il suo successo decretò la nascita di una nuova generazione di cineasti, che avrebbe cambiato la storia di Hollywood.

Stasera in tv Il laureato con Dustin Hoffman

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È curioso il destino de Il laureato di Mike Nichols, che lanciò Dustin Hoffman, qui al primo ruolo da protagonista. Il film è ricordato come la prima radiografia d’una nuova generazione di americani, insoddisfatti e contestatori, che stavano acquisendo centralità nella vita sociale e politica del paese. E sembrava, Il laureato, farsi veicolo anche d’una inedita sensibilità estetica, uno stile narrativo più libero e meno condizionato dalla rigidità dei generi (e dai vincoli della censura, abolita nel 1968), che di lì a poco sarebbe divenuto linguaggio egemone sotto l’insegna della New Hollywood. Eppure, rivedendo oggi quel film, e senza assolutamente volerne sminuire i notevoli pregi, è difficile sostenere che quell’immagine corrisponda del tutto a verità.

Questo perché, a ben vedere, Il laureato non racconta il conflitto che serpeggiava tra i giovani americani degli anni Sessanta, che protestavano contro la guerra in Vietnam, la segregazione razziale e l’autoritarismo del capitalismo avanzato (nei college gli studenti leggevano libri come L’uomo a una dimensione di Marcuse). Il protagonista Benjamin non ha particolare consapevolezza politica, non è un sovversivo, bensì un ragazzo della buona borghesia, il cui disagio non sembra legato al rifiuto globale di un sistema di vita, bensì al timore di non riuscire a trovare un proprio modo, più autentico, di declinare quel modello, che comunque accetta nei suoi presupposti fondamentali.

Non a caso la colonna sonora de Il laureato non è quella della nascente controcultura psichedelica di Jefferson Airplane e Grateful Dead, né il folk impegnato di Dylan. Ci sono invece le bellissime melodie di Simon e Garfunkel, nelle quali non si parla di sit-in pacifisti, ma della fragilità emotiva e dei dubbi esistenziali di ragazzi introversi e sensibili. E a distanza di anni il fascino del film resta strettamente legato alla dolcezza delle musiche e delle liriche penetranti di Paul Simon, segnate da quell’aria da eterno Greenwich Village dell’anima.

Certo, c’è poi la vistosità della storia “scabrosa”, in cui una donna matura, la Mrs. Robinson di Anne Bancroft, tradisce il marito e amoreggia con un ragazzo poco più che maggiorenne, figlio di amici di famiglia. Ma a sottolineare quanto timido, pur nella novità, fosse il passo compiuto da Il laureato, basterebbe ricordare come, in realtà, la differenza d’età tra i due attori fosse di soli sei anni, con un Dustin Hoffman già trentenne. Eppure quell’elemento incise nell’enorme successo del film che, uscito sul finire del 1967, fu il maggiore incasso dell’anno successivo. Anche perché Benjamin, dopo aver consumato l’adulterio con Mrs. Robinson, capisce di essersi innamorato della di lei figlia Elaine (Katharine Ross, volto simbolo del nuovo cinema americano, poi protagonista di Butch Cassidy con Newman e Redford).

Non è che nel cinema statunitense fossero mancate storie di una sessualità più disinibita e aggiornata: anzi, nell’underground dei Kenneth Anger, Jack Smith o Andy Warhol si era visto ben altro, finanche omosessualità e perversioni. Ma quelli erano film quasi invisibili, proiettati al massimo in sale d’essai per intellettuali newyorkesi o, sulla costa Ovest, per un pubblico di fricchettoni, senza dunque avere alcuna incidenza sull’immaginario dell’americano medio.

Un’influenza più consistente in quegli anni, se non sul grande pubblico almeno su chi il cinema lo faceva, l’avevano avuta la Nouvelle Vague francese dei Resnais e Truffaut e il cinema d’autore dei maestri europei come Fellini, Bergman, Antonioni. Per cui un film come Il laureato, firmato da un cineasta quasi esordiente, Mike Nichols, con però una lunga esperienza teatrale e televisiva, risentiva della libertà tematica e stilistica di quelle pellicole, traducendole in una forma consona allo spettacolo hollywoodiano, contemporaneamente aggiornato anche sotto il profilo degli argomenti affrontati (i dilemmi esistenziali delle nuove generazioni). Sono ascendenze che notarono già i recensori del tempo, primo fra tutti l’autorevole Andrew Sarris, che identificò rimandi espliciti a di Fellini, La notte di Antonioni, Il verde prato dell’amore di Agnès Varda.

In realtà ciò che la sintassi moderatamente più libera de Il laureato cominciò a far intuire, sarebbe divenuto più chiaro di lì a poco, con altri film più consapevolmente sintonizzati sulla contemporaneità: il coevo, ma inizialmente di scarso successo, Gangster Story di Arthur Penn, assai più problematico ed esplicito nella rappresentazione della sessualità e di una violenza disturbante; l’ideologia (e la mitologia) controculturale celebrata da Easy Rider (1969) di Dennis Hopper; lo sguardo anarchico e stralunato sul mondo militare di M.A.S.H. (1970) di Robert Altman, per citare solo gli esempi più vistosi.

Questi film si muovono coscientemente in una direzione che Il laureato intraprendeva con maggiori cautele. Tra i suoi pregi, però, bisogna ricordarne uno da ascrivere integralmente al talento di Mike Nichols: la grande ironia, capace di infondere accenti apertamente comici in momenti drammatici, come nella celebre gag del crocifisso utilizzato da Benjamin per sbarrare la porta della chiesa, straordinario sberleffo rivolto non solo verso i benpensanti ma verso un’idea troppo seriosa di cinema (e qui Nichols usufruiva di tutto quello che aveva imparato nel suo fortunatissimo apprendistato da comedian insieme a Elaine May). Come indimenticabile resta quel finale sospeso – non credo ci sia rischio di spoiler con un classico così famoso – in cui, dopo aver coronato l’agognato sogno d’amore, la coppia guarda lungamente davanti a sé, come incredula del gesto compiuto – e forse dubbiosa del futuro, non solo del proprio.