Rocky: Sylvester Stallone e la creazione di un eroe americano

Rocky Balboa è l’eroe proletario che trasformò un attore sconosciuto in un divo planetario. Una storia che incarna la promessa di felicità del sogno americano. L’“uomo qualunque” Stallone è un interprete ideale

Rocky stasera su Rai Tre Sylvester Stallone

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Lui si chiama Sylvester Stallone e mi ricorda il giovane Marlon Brando”. Si era fatto prendere la mano Roger Ebert, uno dei più rispettati critici cinematografici statunitensi, nella sua entusiastica recensione di Rocky (1976), il film scritto e interpretato dal semisconosciuto Stallone. Il quale non sarebbe mai diventato il nuovo Brando: e che però, con la storia del modesto pugile Rocky Balboa che ritrova dignità e rispetto per se stesso sul ring lottando per il titolo mondiale contro il campione Apollo Creed (Carl Weathers), riuscì a toccare a metà degli anni Settanta le corde emotive giuste di un paese disilluso che, incrinato l’american dream a colpi di assassinii politici, Vietnam, e Watergate, aveva bisogno di tornare a credere in qualcosa.

Rocky è una grande epopea, per la quale vale ciò che disse una volta Umberto Eco a proposito di Casablanca: “Quando gli archetipi irrompono senza decenza, si raggiungono profondità omeriche. Due cliché fanno ridere, cento commuovono”. E il film sceneggiato da Stallone era ricolmo di cliché: un underdog senza futuro, innamorato della ragazza timida e bruttina del quartiere (l’Adriana di Talia Shire), che grazie al suo gran cuore e ai consigli d’un vecchio allenatore piegato da una vita di sconfitte (Burgess Meredith), trova la forza per prendersi quell’occasione cui ogni americano legittimamente aspira, perché scritta nel diritto alla “ricerca della felicità” della Dichiarazione di Indipendenza.

Diversamente da Casablanca, però, il protagonista di Rocky non ha il profilo romantico e fascinoso di un Bogart, che sintetizza qualità straordinarie che non appartengono all’uomo comune. Stallone invece incarna proprio quel common man, con l’orgoglio, la semplicità e la fierezza di un’America proletaria. La quale non faticò a identificarsi col volto e l’espressione non troppo sveglia di un attore senza il physique du rôle e il magnetismo del divo, ma con l’aria autentica dell’uomo onesto e sincero.

La sensazione di autenticità è esaltata dalla confezione spoglia del film, dal realismo dimesso che fotografa un mondo quotidiano di palestre sporche, abitazioni modeste, ambienti della working class che di lì a poco, con gli euforici anni Ottanta, il cinema americano smetterà quasi di mostrare. Rocky invece si allena attraversando le strade di Philadelphia, accompagnato da un celebre crescendo musicale e l’elettrizzante ascesa dei 72 scalini dell’Art Museum che rendono la città dell’amore fraterno molto più che il fondale della vicenda, bensì lo spazio simbolico di un’avventura epica nella quale si rinnova il mito del self-made man artefice del proprio destino.

Rocky prende a modello i meccanismi produttivi e la grammatica della New Hollywood che in quegli anni stava rinnovando il cinema americano: e quindi piccolo budget (il film costò poco più di un milione di dollari), un’aria di spontaneismo improvvisato, rinuncia agli studios, lancio di volti nuovi. Ma quelli che nelle mani della nuova generazione di autori erano strumenti indispensabili alla costruzione di racconti critici e demistificanti, a Stallone e al regista John G. Avildsen servono invece per dare una patina di contemporaneità e freschezza a un racconto in verità assai tradizionale.

Rocky ebbe un successo senza precedenti: 225 milioni di dollari al botteghino e il plauso della critica, con tre Oscar, tra cui quelli per miglior film e miglior regia. Ne nacque una serie fortunatissima, allineata alle esigenze della carriera personale di Stallone che, nel frattempo, lanciato il nuovo personaggio di Rambo, si stava tramutando nel simbolo della nuova stagione vissuta dal paese negli anni Ottanta, divenendo una sorta di campione del reaganismo. E allora Rocky assecondò lo spirito del tempo, trasformandosi nel quarto episodio in un peana alla guerra fredda, con il famoso combattimento tra l’eroe della working class e il sovietico Ivan Drago, metallico e inumano.

Rocky così perse per strada le qualità originarie della storia, poggiate su quel realismo sottotono che mitigava l’enfasi della storia e la rendeva affettuosamente credibile. E lo stesso destino toccò a Stallone, prigioniero del machismo sociopatico di Rambo (e di allarmanti giustizieri come Cobra), quando invece le sue caratteristiche migliori derivavano proprio dalla sua fisicità letargica, quel misto di impaccio indifeso e forza bruta dell’uomo della strada al fondo buono e sentimentale. Non sarebbe mai diventato il nuovo Brando, ma chissà cosa sarebbe accaduto se avesse assecondato più spesso le sue doti migliori.