Miele è il sorprendente debutto registico di Valeria Golino, ispirato al romanzo Vi perdono di Angela Del Fabbro, pseudonimo di Mauro Covacich, che l’ha ripubblicato a suo nome come sezione di A nome tuo, dandogli il titolo “Musica per aeroporti”.
La musica è importante nella storia di Miele, nome fittizio che Irene (Jasmine Trinca) usa nel lavoro, che è quello di aiutare i malati terminali nel percorso verso l’eutanasia, fornendo loro un barbiturico veterinario e l’indispensabile assistenza. Una delle cose che fa è, appunto, suggerire una musica di “accompagnamento” verso la fine, quasi fosse impossibile immaginare parole di commiato o di spiegazione, e fosse più consono occupare lo spazio vuoto di una vita che non è più tale con note che appartengono alla storia emotiva delle persone.
Di parole e spiegazioni circa la sua “professione” Miele ne ha pochissime: infatti, nei viaggi in Messico dove si procura il medicinale e in Italia dai “clienti”, ascolta continuamente canzoni astraendosi dal contesto. Di lei sappiamo pochissimo: è orfana di madre, ha abbandonato la facoltà di medicina, ha un rapporto poco impegnativo con un uomo sposato. Il senso delle sue scelte di vita resta opaco: come senza risposte è il film, non un saggio a tesi sul tema spinoso dell’eutanasia ma il ritratto di una donna che s’illude di sottrarsi alla contraddittorietà del suo ruolo affidandosi all’asetticità del protocollo meticolosamente seguito (guanti da infermiere, regole di somministrazione, la lettera in cui i malati dichiarano di aver fatto tutto da soli).
La sicurezza di Miele s’incrina quando scopre che un cliente, l’ingegnere Grimaldi (Carlo Cecchi) non è in fin di vita, ma è “soltanto” un uomo depresso. Così il disagio della protagonista, che covava sotterraneo manifestato da alcuni segnali fisici (tachicardie e sangue dal naso), emerge con chiarezza. Miele pedina l’ingegnere, per evitare che si uccida, per tacitare la coscienza, per trovare comprensione in un individuo che, come lei, è perennemente contiguo alla morte (in un collaudato confronto generazionale alla Film rosso e Nelly e Monsieur Arnaud).
Il racconto è rigoroso, a tratti con un’esibita asciuttezza “d’autore”, ma sincero. Si sente lo sguardo d’attrice nella direzione degli interpreti: Jasmine Trinca, alla sua prova più matura e Carlo Cecchi, pilastro del teatro di ricerca italiano che al cinema non ci è mai sembrato centrato come in Miele, nel quale la sua naturale intrattabilità è perfetta per restituire una commozione senza sentimentalismi.
L’assenza di una presa di posizione sull’eutanasia non significa evasività: lo dimostra il momento in cui, di fronte a un giovane paraplegico che ha scelto di morire, Miele guarda insistentemente in primo piano verso lo spettatore, rilanciando su di lui l’urgenza di un’interrogazione cui non possono bastare risposte semplicistiche o dogmatiche. Miele rimette al centro un tema che è il grande rimosso della narrazione contemporanea, assai generosa nel raccontare morti ammazzati attraverso la violenza fumettistica d’un thriller o di un horror, ma a disagio con la sofferenza della morte “quotidiana”, che riguarda tutti. Per questo il film consegna allo spettatore la domanda: perché la questione gli (ci) riguarda.