The Lobster: nella società del futuro è vietato essere single

Colin Farrell e Rachel Weisz sono i protagonisti del nuovo film di Yorgos Lanthimos, che racconta un mondo in cui chi non vive in coppia viene trasformato in un animale. Una parabola provocatoria, ispirata al surrealismo. Che ha il limite dei film a tesi: il disinteresse per i dettagli della vita vera.

The Lobster interpreti Farrell e Weisz

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Ciclicamente fa la sua apparizione nelle sale un tipo particolare di cineasta, il “regista entomologo”, colui il quale osserva con sovrana indifferenza il comportamento di quei buffi insetti che sono gli esseri umani, che s’affannano in mille compromessi per tirare avanti, come se ne valesse ancora la pena. Talvolta l’atteggiamento distaccato di questi artisti si nutre di un’ironia postmodernista, come nel caso dei fratelli Coen; in altre occasioni, soprattutto con autori europei, assume la forma severa di uno sguardo geometrico e oggettivo, che lascia ben poche illusioni alla miserabile umanità ritratta.

Oggi sono entomologi il venerato maestro austriaco Michael Haneke e il suo connazionale Ulrich Seidl: e sicuramente il greco Yorgos Lanthimos che, fattosi notare con Kynodontas (2009), candidato al premio Oscar e Alps (2011), girati in patria, è approdato alla produzione internazionale con divi di The Lobster (2015). Col passaggio di scala, va detto, non è arretrato di un millimetro, proseguendo con imperterrita coerenza lungo il sentiero della propria poetica.

The Lobster racconta una società (futuribile?) nella quale la vita di coppia è l’unica condizione ammessa. L’architetto David (Colin Farrell), da poco separato, è obbligato a una vacanza in una struttura alberghiera popolata di single, che hanno 45 giorni per trovare l’anima gemella, pena, scaduto il tempo, la trasformazione in un animale di loro scelta. Che per David è l’aragosta perché, dice, vive fino a cent’anni e ha grandi capacità riproduttive. Fallito un tentativo di relazione con una donna spietata (Angeliki Papoulia) che gli uccide il fratello trasformato in cane, David scappa nel bosco, riunendosi ai single fuggiaschi guidati dal Capo dei solitari (Léa Seydoux), che seguono uno stile di vita rigorosamente individuale, col divieto di flirtare. Lì conosce la Donna miope (Rachel Weisz), di cui s’innamora.

Come in Kynodontas, che racconta la storia di un padre di famiglia che fa crescere i tre figli separati dal mondo per proteggerli, The Lobster è in gran parte chiuso in uno spazio concentrazionario, un hotel che sembra una colonia penale. Gli ospiti di cui David – un Colin Farrell spogliato di qualunque divismo, con pancetta e atteggiamento abulico – fa la conoscenza sono tutti affetti da handicap, metafora di una società claudicante: la “Donna che sanguina dal naso” (Jessica Barde), “L’uomo zoppo” (Ben Whishaw), “L’uomo col difetto di pronuncia” (John C. Reilly). Nessuno nutre reali interessi verso gli altri: una donna che manifesta palesemente la sua infelicità è evitata da tutti, e la meglio adattata all’ambiente è la terribile “Donna spietata”, che David cerca di sedurre fingendosi cattivo e insensibile come lei (il mesto teorema dell’amore senza amore di The Lobster prevede che l’attrazione scatti solo tra individui identici).

Ogni cosa è ritratta con stile spassionato, dal sesso, ridotto a meccanico rituale di accoppiamento, alla sofferenza (una donna che tenta il suicidio buttandosi giù è lasciata sul selciato a lamentarsi senza che nessuno intervenga). Le cose non vanno meglio nel bosco dei fuggiaschi, dove si è sottoposti a regole ugualmente costrittive dal fanatico Capo dei solitari, che comprendono lo scavarsi in anticipo la fossa ed evitare contatti fisici.

Lanthimos condisce il racconto di un’ironia paradossale da teatro dell’assurdo, quel tipo di allegria che fa ridere istericamente ai funerali. Lo stile guarda al surrealismo, a partire dall’aragosta del titolo, che rimanda al famoso telefono aragosta di Dalì. E soprattutto, c’è il surrealismo sottotono di Buñuel: che evita l’onirismo spinto e si muove tra reale e fantastico mantenendo una forma classica dell’immagine, nella quale l’allucinazione è ottenuta attraverso dei simboli incongrui che irrompono nel quotidiano. Simboli che Lanthimos cita abbondantemente: la presenza degli animali (Il fantasma della libertà), l’unità di luogo (L’angelo sterminatore), i borghesi benvestiti che camminano senza meta apparente (Il fascino discreto della borghesia, naturalmente), la perdita della vista (Un chien andalou).

Questi materiali, controllati e integrati in uno stile indubbiamente personale, lasciano però un senso di insoddisfazione, legato all’approccio entomologico di cui sopra. Che spesso ammannisce agli spettatori, pensando sia chissà quale scoperta, una storia dalla morale nota a chiunque, e cioè che vivere è difficile ed è meglio non farsi troppe illusioni. Gli entomologi, apprezzabili nelle intenzioni, sono spesso pregiudizialmente pessimisti e finiscono per stendere il grigio del loro umor tetro sulla realtà intera. E così perdono l’interesse per i dettagli: infatti Lanthimos enumera personaggi che sono pure funzioni narrative al servizio di una tesi precostituita, espressa in uno stile inflessibile, sempre uguale a se stesso, un film dopo l’altro (il finale di The Lobster è praticamente identico a quello di Kynodontas).

In questo, pur prendendone in prestito alcuni elementi, Lanthimos resta lontano dall’approccio di Buñuel: il quale, sebbene non nutrisse grande fiducia nell’umanità presa nel suo complesso, destinava uno sguardo curioso (e più comprensivo) sulle vicende dei singoli. Invece il discorso (e il giudizio) di Lanthimos sulle cose e sugli uomini è chiarissimo sin dalla prima inquadratura: e il teorema prosegue implacabile fino alla fine, come una brillante ma superflua lezione di metafisica sull’inutilità della vita.