La notizia del giorno è che Netflix, il colosso della tv via internet che sbarcherà in Italia il 22 ottobre, produrrà Suburra, dieci episodi sulla criminalità organizzata romana. A dirigerli sarà Stefano Sollima, regista dell’attesissimo film omonimo con Pierfrancesco Favino ed Elio Germano in uscita il 14 ottobre, e soprattutto autore dei due serial, Gomorra (2014) e Romanzo criminale (2008 e 2010), che hanno segnato il notevole salto di qualità della fiction italiana, tutto all’insegna di storie criminali a tinte foschissime.
In realtà, volendo indicare il capostipite del genere, bisogna fare un passo indietro fino al 2005, l’anno del film Romanzo criminale, diretto da Michele Placido a partire dal libro del magistrato-scrittore Giancarlo De Cataldo. Una crime story adulta che mescola le alte temperature emozionali della fiction alla vicenda reale della famigerata banda della Magliana, crocevia di pagine oscure della storia patria recente, terrorismo, servizi segreti deviati, strage di Bologna.
Il film di Placido è una macchina narrativa di prim’ordine, brusca e violenta, che pesca dentro il noir e fa leva sul sinistro appeal che i personaggi criminali esercitano sugli spettatori dai tempi dei gangster movie hollywoodiani degli anni Trenta. Su quel fascino Placido gioca consapevolmente e perciò sceglie per impersonare i suoi antieroi i giovani attori più seducenti dell’ultima generazione: Pierfrancesco Favino (Libanese), Kim Rossi Stuart (Freddo), Claudio Santamaria (Dandi), Riccardo Scamarcio (Nero), cui oppone un antagonista all’altezza, il commissario Scialoja di Stefano Accorsi.
Romanzo criminale è una storia interamente al maschile, nel quale le donne (la prostituta Anna Mouglalis amata da Dandi e Scialoja, l’ingenua brava ragazza innamorata del Freddo, Jasmine Trinca) hanno una funzione accessoria e passiva – nessuna traccia, benché si parli di anni Settanta, di femminismo. Un mondo di individui spregevoli, ma di una virilità netta e priva di ambiguità: dei “last real men”, come li ha definiti Catherine O’Rawe in un interessante studio sull’evoluzione dell’identità dell’uomo italiano, Stars and Masculinities in Contemporary Italian Cinema. Un libro nel quale Romanzo criminale costituisce una tappa essenziale per comprendere il tipo maschile che si è imposto nell’immaginario nostalgico (“gli uomini veri di una volta”) dell’Italia di oggi.
Infatti gli attori del film di Placido sono diventati i divi del nostro cinema, capaci di proiettare l’aria virile dei caratteri di Romanzo criminale anche su ruoli completamente differenti. E se Favino interpreta un omosessuale, come in Saturno contro di Özpetek, sa avvantaggiarsi del contrasto che quel personaggio produce rispetto alla sua rocciosa immagine consolidata.
Placido poi esaspera l’attrazione che esercitano i suoi protagonisti violenti, tramite una disinvolta rete di citazioni attinte da classici del genere: C’era una volta in America (il legame di sangue che risale all’infanzia dei componenti della banda), Gli intoccabili (l’immancabile uso della musica classica come colonna sonora dei crimini più efferati), Scarface (la solitudine drogata e megalomane del Libanese esemplata sul Tony Montana di Al Pacino).
Il risultato, che può lasciare perplessi, è un approccio mitologizzante a individui spregevoli, impersonati da attori col physique du rôle e le pose dell’eroe romantico. Ma è innegabile l’efficacia spettacolare: da cui deriva il limite maggiore di Romanzo criminale che non riesce, come vorrebbe, a mantenere in equilibrio l’esigenza di intrattenimento da racconto di genere con l’impegno civile della pellicola che denuncia le trame oscure della storia d’Italia.
Il punto è che quando la macchina da presa s’incolla troppo ai personaggi si corre il rischio di affezionarsi alle loro vicende, per quanto ripugnanti siano. Romanzo criminale segue le ambizioni, gli amori, i tradimenti, il (seppur distorto) senso dell’onore del Libanese, Dandi e Freddo: e anche se li mostra spietati, li racconta sempre come personaggi “bigger than life”, che riescono nell’impresa straordinaria di mettere Roma ai loro piedi. Ma Placido fa di più, applicando un alone romantico alle storie sbagliate di ragazzi cui la società non ha offerto alcuna possibilità, cresciuti male e finiti peggio. E alla fine, considerato anche il fascino degli attori che li incarnano, si finisce per aderire e commuoversi alle imprese eccezionali e alla disfatta dei cattivi.
Quando le emozioni prendono il sopravvento, la rilettura critica dei fatti storici – che avrebbe bisogno di una lucidità analitica e una presa di distanza dagli avvenimenti rappresentati che qui manca – è destinata a fallire, e fatalmente le controverse vicende nazionali si riducono a essere il fondale verosimile sul quale si muovono i protagonisti. Romanzo criminale fallisce nelle sue ambizioni di affresco da cinema civile. Ma è un ottimo film di genere, il migliore del Placido regista: capace di trasformare un gruppo di giovani attori in divi, offrire ai suoi personaggi una vita oltre lo schermo – serie televisiva omonima e spin off letterari di De Cataldo – e, soprattutto, lanciare un filone di successo incentrato sull’ambigua fascinazione del personaggio criminale. Così ambigua che, quando il serial tv Romanzo criminale fu lanciato con una disinvolta strategia promozionale, esponendo busti in polistirolo del Libanese, Freddo, Dandi e Nero nelle strade di Roma, qualcuno commentò: «È incredibile, sembra quasi volere glorificare degli assassini».