Sicario: Benicio del Toro oltre i confini del bene e del male

Il film di Villeneuve racconta un’operazione governativa contro i cartelli della droga messicani, guidata da un ambiguo “sicario”. Un thriller all'insegna della violenza, dove le forze dell'ordine hanno perduto il senso della giustizia. Visivamente straordinario, ma con un pessimismo privo di sfumature.

Sicario con Benicio del Toro ed Emily Blunt

INTERAZIONI: 40

Kate (Emily Blunt) è un’agente dell’Fbi arruolata da Matt (Josh Brolin), responsabile d’una task force governativa che si oppone ai narcotrafficanti messicani. Per questo partecipa a una missione oltre confine, guidata da un “consulente” (Benicio del Toro) dalla misteriosa identità.

Sicario è il secondo film realizzato negli Stati Uniti dal regista canadese Denis Villeneuve, dopo Prisoners, inquietante saggio etologico sulla provincia americana che reagisce a una situazione di crisi – il rapimento di due bambine – smarrendo le norme della convivenza civile, con padri che si trasformano in seviziatori per ritrovare le figlie.

In Sicario il punto d’osservazione si sposta verso l’alto, indagando le strategie di contrasto alla criminalità dei centri che gestiscono il potere. Uno “sguardo dall’alto” che Villeneuve traduce in insistite inquadrature aree, per radiografare gli scenari lungo i quali si svolge la vicenda, il confine tra Stati Uniti e Messico. La conformazione del territorio però non mostra punti di cesura netti tra i paesi: e l’assenza d’una separazione chiara diventa specchio dell’ambiguità morale d’una storia nella quale è impossibile distinguere buoni e cattivi.

Ambigui sono i protagonisti, Matt e il Sicario: un agente della Cia di sinistra rilassatezza, che partecipa alle riunioni in ciabatte da mare, e un mercenario colombiano lontanissimo dal ritratto rassicurante del “buono”. In mezzo c’è Kate: l’agente idealista che vorrebbe operare secondo protocollo, catapultata in un mondo, letteralmente e simbolicamente, aldilà dei confini, dove le regole cui è stata addestrata non hanno cittadinanza.

Lo sguardo di Kate (reso bene dalla Blunt, tra determinazione, fragilità e spaesamento) coincide con quello dello spettatore, tenuto come lei all’oscuro dei fatti. Nella prima sequenza del film, la giovane agente resta immersa nella polvere scaturita da un’esplosione, che rende il senso di perdita dell’orientamento cui la protagonista soggiacerà lungo il film, e il suo bisogno di diradare la nebbia per ritrovare i contorni certi d’una realtà sfuggente e allarmante.

Ma l’operazione messicana ha l’aspetto di un viaggio all’inferno: tra omicidi di massa dei violentissimi cartelli della droga, operazioni governative di reparti (para?)militari senza regole d’ingaggio, l’uso della tortura da parte del sicario avallata dalla Cia (le ferite di Abu Ghraib alla cultura del diritto sono ancora vive), poliziotti corrotti che fanno i corrieri della droga.

Villeneuve punta su una regia molto fisica, che restituisce il senso di minaccia d’una storia di corpi dilaniati, suv incolonnati con militari armati fino ai denti, missioni notturne con visori a infrarossi. Ma il regista si fa prendere la mano dal thriller, trasformando il sicario in un grottesco e infallibile giustiziere della notte. Come la protagonista che non vede più il confine tra legge e brutalità, così Villeneuve smarrisce la capacità di distinguere tra bene e male e confeziona un film a tesi semplicistico, che gioca sugli shock emotivi e non sul ragionamento. Sicario è un film di notevole impatto, ma è regolato su un pessimismo apocalittico senza sfumature, in cui la violenza sembra un dato antropologico (se non metafisico), che ha poco a che vedere con la volontà degli uomini.