Darkness on the edge of town: colline d’Irlanda rosso sangue al Giffoni 2015

In concorso nella categoria “Generator +18”, il film dell’esordiente Patrick Ryan, che racconta una provincia rurale irlandese di famiglie infelici e violente. Cupa come l’America suburbana descritta da Bruce Springsteen nella canzone che dà il titolo al film.

Darkness on the edge of town nel concorso di Giffoni

INTERAZIONI: 7

Decisamente “adulto” il programma del concorso “Generator +18” al Giffoni Film Festival. Prima è stato il turno del violentissimo film sudcoreano Coin Locker Girl, di Han Jun-hee: un’orfana, abbandonata in un armadietto della stazione della metropolitana, entra in una banda di criminali la cui spietata leader è nota come la “Mamma”, mentre i giovani componenti tra di loro si chiamano “Fratello” e “Sorella”. Un gruppo grottescamente parafamiliare, destinato a un tragico destino di sangue in una vicenda nerissima.

Non mancano le assonanze con un’altra opera in concorso, Darkness on the edge of town, un indie irlandese dal budget inesistente, 18mila euro, firmato dall’esordiente Patrick Ryan. Anche al centro di questo film ci sono famiglie, stavolta reali, segnate dall’odio e dal sangue. Lo stile naturalmente è diverso rispetto alla pellicola sudcoreana, senza quell’eccessivo voyerismo splatter: qui c’è un’atmosfera più evocativa e rarefatta, anche se in comune c’è un ritmo che alterna lentezze intimiste a lancinanti brutalità.

La violenza di Darkness on the edge of town è incistata nella provincia rurale del sud dell’Irlanda: Cleo (Emma Eliza Regan), un’adolescente esperta tiratrice, orfana di entrambi i genitori, decide di vendicare la morte della sorella maggiore Ashy, barbaramente uccisa. Quello che non può sapere, ed è invece noto sin dall’inizio agli spettatori, è che la colpevole del delitto è l’amica Robin (Emma Willis), gelosa di chiunque rompa l’armonia del loro rapporto simbiotico.

Questo è solo il punto di partenza di una storia in cui s’intrecciano le sofferenze rabbiose di famiglie senza speranze di redenzione. Quella di Robin prima di tutto, vittima da bambina delle violenze di un padre che ha abbandonato la famiglia, un’ingiustizia di cui ritiene colpevoli la madre e il fratello, per non averla mai difesa. Si vendicherà buttando la madre alcolizzata giù dalle scale, come in un melodramma alla John M. Stahl. In quanto al fratello, non si farà scrupoli di dire a Cleo che è lui l’assassinio della sorella.

Considerato il budget striminzito, il racconto dimostra un’indubbia eleganza visiva e un certo gusto cinefilo, palese nel pezzo di bravura d’apertura, quasi dieci minuti di film muto durante i quali si consuma la morte di Ashly. Sin dal titolo il film rimanda a un immaginario cinematografico statunitense, come testimonia il titolo che omaggia Springsteen, il cantore epico e malinconico di quel mondo suburbano americano in cui la metropoli stinge nella provincia.

Qui però l’ambiente in cui esplode la violenza è annegato nella straziante bellezza della natura irlandese, cielo e verdi colline la cui indifferenza a ciò che accade rende la vicenda ancora più dolorosa, creando un cortocircuito tra la luce degli spazi sterminati e “l’oscurità alla periferia della città” che cantava il Boss.

Il sangue scorre copioso come in una tragedia, quasi la violenza fosse l’unico collante emotivo tra gli individui. Ma il giovane Ryan sa scavare in questa brutalità senza farsene risucchiare, come accade invece ad Han Jun-hee: per cercare ancora sprazzi di umanità e bellezza.
https://youtu.be/I2k1lxI5ElM