Leviathan: il grido di Giobbe in un mondo inumano e corrotto

Andrej Zvjagincev costruisce una sconsolata riflessione morale su una realtà in cui l’uomo è nemico del suo simile. E le istituzioni, dalla politica alla religione, sono marce fino al midollo. Suggestiva l’ambientazione nell’estremo nord della Russia. Ma il pessimismo d’autore è troppo programmatico.

Leviathan Giobbe in un mondo inumano e corrotto

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Leviathan era passato con successo a Cannes 2014, dove aveva ottenuto il Premio per la Miglior sceneggiatura, vincendo poi il Golden Globe 2015 come miglior film straniero. Il suo autore, Andrej Zvjagincev, è stato anche Leone d’oro nel 2003 a Venezia con Il ritorno, da cui la nuova opera eredita certi aspetti formali (la presenza costante di acqua, pioggia, terra).

L’ambientazione è suggestiva, l’estremo nord della Russia, sulle coste del mare di Barents, dominate da una natura scabra punteggiata di carcasse di barche e animali, affacciata su acque fredde, maestose e scostanti. Un paesaggio a metà tra inospitalità e bellezza da sublime kantiano, cui è legatissimo Kolia (Alexey Serebryakov), che ci vive con la moglie Lilya (Elena Lyadova) e il figlio nato dal precedente matrimonio. L’uomo è nel mezzo di un braccio di ferro con il corrotto sindaco del villaggio, Vadim (Roman Madyanov), che vuole espropriarlo di casa e terra per riedificare la zona.

Kolia chiede aiuto a un vecchio commilitone, l’avvocato moscovita Dmitri (Vladimir Vdovitchenkov): ma il contenzioso da legale scivola velocemente verso l’illegalità. Per i modi sempre più minacciosi del sindaco, e perché Dmitri vuole avvalersi di certi documenti relativi al passato dell’uomo politico che, se resi pubblici, potrebbero rovinarlo. La situazione precipita, anche perché Lilya e l’avvocato hanno una relazione, con ripercussioni pesantissime.

Zvjagincev costruisce un racconto morale di notevole tenuta narrativa e formale, intagliando con studiata lentezza i caratteri dei personaggi, le loro relazioni reciproche e il rapporto di questi con il paesaggio, chiaramente un coprotagonista della vicenda, che ne definisce ritmo e temperatura. È un clima raffreddato e raggelante quello di Leviathan. L’umanità non ha più speranze: Kolia nutre un’enorme fiducia nell’avvocato, ma questi gli volta le spalle, andando a letto con sua moglie e sparendo nel momento in cui gli accadimenti prendono una piega drammatica.

Le istituzioni, da parte loro, sono al collasso. Nessuno si fa più illusioni verso una politica dai metodi mafiosi: infatti la gente come passatempo spara contro i ritratti dei vecchi statisti, Lenin, Brèžnev e Gorbačëv, mentre quello dell’attuale, Putin, campeggia minaccioso nei palazzi del potere. La Chiesa non è da meno, incarnata da un inquietante prete ortodosso che durante l’omelia parla ispirato di verità e amore, ma nel faccia a faccia col sindaco lo aizza dicendogli che “ogni potere viene da Dio e dove c’è il potere c’è la forza”.

Chiaramente ispirato sin dal titolo all’homo homini lupus di Hobbes e al biblico patimento di Giobbe, Leviathan è un’opera eccessivamente autoriale nel suo laborioso tessuto formale, appesantita da didascalici simbolismi: lo scenario che ritorna identico all’inizio e alla fine (a indicare l’indifferenza della natura alle tragedie degli uomini) e l’onnipresente carcassa di balena (il Leviatano, dell’Antico Testamento, appunto).

Il mondo è un luogo stupendo ma inospitale e degli esseri umani non c’è da fidarsi: un assunto incontestabile, per carità, ma proprio per questo quasi superfluo nel suo corrucciato pessimismo, servito dall’autore con il tono distaccato di un teorema fin troppo programmatico.