Humandroid: anche i robot hanno un’anima

Il regista di fantascienza Neill Blomkamp racconta la storia di Chappie, un robot intelligente e sensibile. Vorrebbe essere una riflessione filosofica sull’identità e la coscienza. Ma è un fumettone già visto, pieno di personaggi prevedibili. Un incrocio tra Robocop e Wall-e, con dosi eccessive di violenza.

Humandroid fantascienza secondo Blomkamp

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Tra l’intrigante esordio di District 9 e la sbandata hollywoodiana di Elysium erano sorti interrogativi circa le reali qualità del regista di fantascienza sudafricano Neill Blomkamp, che dirigerà anche il prossimo Alien. Ma Humandroid, ancora un racconto distopico, dirada i dubbi e fa propendere per il definitivo ridimensionamento di questo autore.

In una violentissima Johannesburg, la soluzione l’ha offerta la Tetravaal di Michelle Bradley (Sigourney Weaver, sprecata), società specializzata nella robotica che, grazie all’ingegnere Deon (Dev Patel), ha ideato delle efficienti macchine in grado di assicurare l’ordine pubblico. Studioso di intelligenza artificiale, Deon ha un disegno ancora più ambizioso, creare un robot dotato di coscienza.

I suoi tentativi portano alla realizzazione di un prototipo che unisce alla struttura meccanica una sensibilità e un’intelligenza umane: Chappie, il quale però è come un bambino, smarrito e indifeso, alla ricerca di genitori che lo amino ed educhino. Purtroppo la creatura finisce nelle mani di una banda di malviventi (interpretati da Ninja e ¥o-Landi Vi$$er, componenti dei Die Antwoord, noto gruppo hip hop sudafricano), che ne intuiscono il possibile impiego per scopi criminali. Per questo, benché la sua indole sia pacifica, lo sottopongono a un’educazione poco sentimentale, utile a plasmarne gli istinti aggressivi.

Sulla carta Humandroid vuole essere una riflessione filosofica che intreccia i temi dell’identità, la coscienza e l’intelligenza artificiale, nelle cadenze di un film di genere che frulla con disinvoltura scenari futuribili, dosi massicce di violenza e insospettabili impennate sentimentali. Purtroppo però non c’è un solo tratto originale, i materiali sono tutti di riporto e mescolati con sensibilità fumettistica (nell’accezione deteriore del termine).

Il film sembra un incrocio tra Robocop e Wall-e: da un lato Chappie, come il personaggio del film di Verhoeven, è un’arma letale tecnologica, però venata di umanità; dall’altro è una creatura indifesa e ingenua, con due antenne tenere ed espressive come gli occhioni di Wall-e (e anche durante l’addestramento da gangster resta buffo e simpatico). Sulla falsariga di Robocop, poi, si scatena il duello tra Chappie e un altro robot, una macchina da guerra ideata da un ingegnere sospettoso verso l’intelligenza artificiale (Hugh Jackman, con un taglio di capelli che grida vendetta), la cui cattiveria, per accumulo di stereotipi narrativi, dipende dal fatto che è sia un ex militare ovviamente esaltato che un fanatico religioso (il che dovrebbe motivarne l’odio verso le macchine con un’anima; questa la profondità filosofica del film).

Invece Dean, l’inventore di Chappie, è un ingegnere manco a dirlo indiano, nerd integrale che preferisce i robot agli esseri umani. E sebbene il duo di criminali sia spietato, l’arrivo della creatura scatena l’istinto materno di ¥o-Landi, un’assassina che si trasforma istantaneamente in una dolcissima fatina. Ma nel truculento finale anche Ninja, come da tradizione, avrà l’occasione per redimersi, pronto a sacrificarsi per la sua donna e il robot, verso il quale comincia a nutrire un (magari lievemente distorto) affetto paterno. I figli so’ piezz’ ’e core.