Il “Piccione” di Andersson, trionfatore a Venezia, è un film d’autore d’altri tempi

"Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza" è il lunghissimo titolo del vincitore dell’ultimo Leone d’oro. Parla di un’umanità sconsolata sull’orlo dell’Apocalisse. Ma è un vecchio film da cineclub, pieno di vezzi intellettualistici messi a bella posta per far gridare al capolavoro.

Piccione di Roy Andersson Leone d’oro da cineclub

INTERAZIONI: 79

Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, ultimo Leone d’Oro veneziano dello svedese Roy Andersson, inizia con un trittico di morti fulminanti che fa capire subito il tono del film, tra lo sconfortante e il paradossale, e per i complessivi 100 minuti inanella 39 episodi che rappresentano un monotono campionario di un’umanità senza più speranze.

Ci sono le malinconiche peripezie di Jonathan e Sam, fallimentari venditori di scherzi di Carnevale; un’insegnante di flamenco che molesta un ballerino; il settecentesco re di Svezia Carlo XII che irrompe al giorno d’oggi in un bar prima della battaglia di Poltava e vi ritorna stravolto dopo la disfatta; un gruppo di immigrati usati per alimentare un macchinario che produce suoni celestiali per il trastullo della classe dominante; e così via. Le sequenze sono riprese tutte allo stesso modo: campi lunghi e macchina da presa immobile, distaccata come i protagonisti senza emozioni, annegati in una fotografia uniforme dalle spente tonalità beige, grigio, verde pallido.

Il Piccione chiude la trilogia iniziata con Canzoni dal secondo piano e You, the living che, a sentire il regista, dovrebbe raccontare “un’umanità potenzialmente diretta verso l’Apocalisse”. Andersson vuole parlare della crudeltà umana, prendendo di petto temi esistenziali quali compassione, empatia, infelicità, grandi questioni sociali come la violenza della tecnica (gli insensibili scienziati che torturano una scimmia per un esperimento nel capitolo ironicamente intitolato “Homo sapiens”), domande filosofiche (il personaggio che chiede “è giusto servirsi delle persone solo per il proprio piacere?”).

Per farlo sceglie un tono sconsolato da teatro dell’assurdo, dove nessuno si fa più illusioni e la fine viene attesa senza nemmeno disperarsi. I protagonisti non esprimono alcuna angoscia e continuano a intrattenersi in un’insensata recita quotidiana: gente alla fermata dell’autobus che si domanda quale giorno sia, personaggi che ripetono al telefono il tormentone “sono contento di sentire che state bene”, il portiere d’albergo che intima il silenzio perché “c’è gente che domani deve svegliarsi presto per andare a lavorare”.

I personaggi sono solo simboli, non individui verosimili con un carattere e un mondo che li definisce. Si muovono in uno spazio-tempo mentale, privo di coordinate riconoscibili. I racconti sono senza sviluppo, vicende quasi astratte che servono solo a confermare il pessimistico assunto di fondo. Andersson, questa la perplessità rispetto al suo catalogo di miserie umane, vuole fare un cinema filosofico, in cui i concetti non emergono dalla concretezza delle storie narrate, bensì sono messi in scena direttamente. Un’operazione di pretenzioso intellettualismo, che conduce quasi sempre a esiti fallimentari.

Il Piccione, poi, intende parlare dell’insensatezza della vita in un’epoca in cui, dopo decenni di esistenzialismo e postmodernismo, e la caduta di ideologie, muri, Torri gemelle, hanno tutti capito da un pezzo che la realtà non offre certezze e appigli solidi.

Il regista sembra convinto che l’arte riesca ancora a scandalizzare, come ai tempi delle avanguardie novecentesche. Perciò usa uno stile rivolto al passato: i due venditori sono presi di peso da Beckett; l’idea che “le scene assomigliano a sogni, senza alcuna spiegazione” è di derivazione surrealista; lo scolastico attacco alla borghesia – i cui tratti restano vaghi e indeterminati, non ancorati alla storia – ha il sapore di vecchi film satirici britannici come Magic Christian e La classe dirigente; è la stessa ragione per cui la comicità impassibile guarda ai Monty Python, virata nei toni di un ascetismo indubbiamente personale.

Il Piccione è un film smaccatamente snob, perfetto per un dibattito da vecchio cineclub, pieno di sperimentalismi e formalismi (che ricordano gli spot, più divertenti, che l’autore realizzava negli anni Settanta) messi lì a bella posta per far gridare al capolavoro. Cosa che puntualmente hanno fatto i giurati veneziani i quali, forse per non sembrare passatisti, hanno assegnato il massimo riconoscimento a questo bizzarro cinesauro.