Patria – l’Italia reale e polimorfa di Felice Farina

30 anni di storia ripercorsi con uno stile velatamente documentaristico nell’arco di una nottata. Tre operai disperati che si confrontano sulla cima di una torre. Si pongono quesiti ai quali difficilmente troveranno risposte: ennesime vittime di una realtà difficile da riconoscere, caratterizzata spesso da un’ostilità concentrica.


INTERAZIONI: 7

C’è amarezza in questo lungometraggio. Ce n’è tanta e a giusta ragione. Perché poi volendo fare un po’ di psicologia da quattro soldi, l’amarezza spesso si tramuta in frustrazione, cioè in quello stato d’animo negativo che deriva dalla consapevolezza di essere impotenti davanti ad un bisogno insoddisfatto. In Patria (ne abbiamo parlato già qui) di Felice Farina scorrono le immagini degli anni di piombo, quelle della strage di Capaci, quelle di Mani pulite: il film ha un arco narrativo di una notte, nella quale con uno stile documentaristico si ripercorrono 30 anni della storia d’Italia, a partire dagli anni 70.

Non è una storia semplice, perché spesso è una storia ufficiosa più che ufficiale. Una cronaca apparentemente lontana, che in molti casi si alimenta ancora di intrecci lobbystici e complicità assistite mai provate, a discapito di una verità ufficiale mai emersa. Non a caso il film trae ispirazione da un libro di Enrico Deaglio, testimonianza di trent’anni di cronaca italiana, dalla morte di Moro ad oggi.

La trama del film racconta di tre operai che si arrampicano per protesta sulla torre di uno stabilimento. Protestano contro i licenziamenti e la volontà del padrone di chiudere e segmentare la produzione spostandola, per ovvie ragioni di mercato, in altra area geografica: una storia già vista e (ahinoi) sempre più comune. C’è Salvatore Brogna (Francesco Pannofino), un operaio siciliano con una visione ideologica vicina alla destra sociale: è lui il primo a scalare la torre per protesta. C’è Giorgio, (Roberto Citran) sindacalista con un’ideologia opposta (ma intersecante il pensiero destro sociale per certe tematiche) a Salvatore, che sale per aiutarlo. C’è il terzo inquilino di questo accampamento improvvisato che è Luca, custode ipovedente e autistico (Carlo Giuseppe Gabardin), inconsapevole emblema di una parte di Italia che non riesce a mettere a fuoco una certa realtà.
Salgono per protesta, salgono per minacciare atti estremi. Si sale in alto richiamando inconsapevolmente quell’ “Assalto al cielo” di storica memoria, che qualche secolo fa fece sognare una classe lavoratrice e, se pur nel breve volgere di pochi anni, diede speranza per un’organizzazione sociale diversa, più giusta. Perché poi alla fine è questo uno dei concetti cardini che sembra trapelare dalle immagini e dalla trama stessa. Se sopravvivono certi modi di fare all’insegna del menefreghismo e di certe forme di furbizia sdoganate come lecite e inevitabili, certe conseguenze, dall’effetto domino, sono inevitabili.

Corrado Alvaro scrisse una volta che “La disperazione più grave che possa impadronirsi d’una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”. Una frase che forse andrebbe incisa su qualche targa nei palazzi preposti. Patria è un film politico, inutile girarci intorno: è un lavoro cinematografico che pone quesiti e mancate risposte riconducibili ad una politica in senso lato, dove gli schieramenti e i partiti difficilmente si differenziano per un’appartenenza o per un credo, ma si allineano in un assembramento ideale, accomunati da una mancata responsabilizzazione. Per mancate risposte dovute. Perché se proprio vogliamo dirla tutta, su un ideale altare della Patria, le vittime ignote che si immolano sono quasi sempre i più disperati: eroi inconsapevoli di una guerra dichiarata in sordina e fatta con l’uso di armi non convenzionali.

Dal 26 febbraio nei cinema italiani, il trailer a seguire.