Hannah Arendt: in prima tv il film sull’autrice de “La banalità del male”

Stasera su Rai Tre, firmata da Margarethe von Trotta, la pellicola che ricostruisce la controversia scatenata dal libro dell’intellettuale ebreo-tedesca su Adolf Eichmann, l’organizzatore dello sterminio. Un’opera in sapiente equilibrio tra intenti didattici e racconto cinematografico.

von Trotta racconta la banalità del male di Hannah Arendt

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Il 27 gennaio, Giorno della Memoria, è appena passato, e RaiTre manda in onda in prima tv Hannah Arendt di Margarethe von Trotta. Giusto, perché il film non è una biografia dell’originalissima pensatrice tedesca di origini ebraiche, ma si concentra sugli anni 1961-1964, quando la Arendt seguì per conto del “New Yorker” il processo ad Adolf Eichmann, che organizzò la macchina dello sterminio degli ebrei, definito dai nazisti, con linguaggio burocratico, “soluzione finale”.

Il reportage e il libro che la Arendt ne ricavò, La banalità del male, ebbero una risonanza vastissima, generando polemiche a non finire. Il film racconta correttamente gli aspetti principali della controversia: il primo riguarda il male commesso da Eichmann, definito “banale”. La Arendt fu colpita dall’ordinarietà di questo opaco e grigio burocrate della violenza: egli, scrisse, “era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità) e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a diventare uno dei più grandi criminali di quel periodo”. Un uomo cui difettava la facoltà del pensiero, la capacità di riflettere sul proprio agire, che l’autrice già denunciava in Vita activa come uno dei mali dell’epoca contemporanea. La tesi fu ampiamente attaccata, perché sembrò– non lo era – ridimensionare la gravità dell’Olocausto.

Ma la Arendt fece di più: raccontò il ruolo avuto nell’organizzazione della soluzione finale dai Consigli degli Anziani ebrei, che ressero i ghetti delle città occupate, collaborando al lavoro amministrativo e poliziesco dello sterminio. La Arendt non intendeva accusare gli ebrei e sminuire le responsabilità tedesche: voleva invece ritrarre lo smarrimento morale e materiale dell’intera Europa durante il conflitto, che pose molti uomini di fronte a scelte inimmaginabili. Ma la protesta degli ambienti ebraici fu fortissima, come il film racconta attraverso il confronto della Arendt con il fraterno amico Hans Jonas, che non le parlò per due anni dopo l’uscita del libro.

La von Trotta mantiene in equilibrio profilo pubblico e privato della Arendt – cui giova essere interpretata da un’attrice così diversa fisicamente come Barbara Sukowa. L’intellettuale coinvolta nella controversia di risonanza mondiale è anche una donna ritratta con le sue piccole manie e i suoi affetti, il marito Heinrich e l’amica Mary McCarthy. Non poteva mancare Martin Heidegger, il filosofo che aderì al nazismo, mentore e amore giovanile della Arendt, la quale rinnegò l’uomo, ma restò sostanzialmente fedele al pensatore. Come lui, infatti, riconobbe sempre la centralità della facoltà del pensare, e l’assenza di pensiero di Eichmann – “non capì mai che cosa stava facendo”, scrisse – ispirò le tesi sulla banalità del male.

Il film ha una natura illustrativa, con comprensibili preoccupazioni didattiche: infatti tra le scene più vibranti ci sono i confronti della Arendt con gli studenti. La von Trotta fa una scelta non scontata e sottile: tutti i personaggi storici sono interpretati da attori, solo Eichmann è ripreso da filmati d’epoca. Come se fosse impossibile recitare la parte del più ordinario e grigio degli uomini. Apparentemente uguale a mille altri: in realtà, nella sua banalità, assolutamente singolare, forse irrappresentabile. Come il male di cui si rese colpevole.