The Imitation Game: Turing, lo scienziato gay che capì il codice di Hitler

L’incredibile storia dell’uomo che aiutò a vincere la guerra, poi perseguitato perché omosessuale. Una macchina da Oscar, a partire dal protagonista Benedict Cumberbatch. Ma è un film poco coraggioso, che omette gli aspetti scabrosi della vicenda.

The Imitation Game Cumberbatch interpreta Alan Turing

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“È una di quelle storie che se uno l’avesse inventata non sarebbe stata credibile”, ha giustamente detto Graham Moore, sceneggiatore di The Imitation Game, film sulla vita di Alan Turing, genio matematico, omosessuale asociale, eroe di guerra. L’esercito britannico lo scelse per trovare la chiave di Enigma, codice usato dai nazisti per inviare messaggi cifrati. Turing creò una macchina per decrittarlo, quasi un progenitore del computer. Ma non ebbe medaglie. Al contrario, quando nel 1952 denunciò un furto nel suo appartamento, la polizia ne scoprì l’omosessualità, allora un crimine. Dovette scegliere tra galera e castrazione chimica: optò per la seconda, ma l’umiliazione lo spinse al suicidio.

Teoricamente il film è un elogio della diversità: “Il mondo è infinitamente migliore perché tu non sei normale”, gli dice Joan (Keira Knightley), l’unica che cerca di scavare sotto la superficie di quest’uomo difficile. Ma l’eccentricità di Turing (Benedict Cumberbatch) non è realmente indagata e messa in relazione con la società che l’ha prodotta. Ne risulta un biopic insapore, come spesso le superproduzioni internazionali: qui soldi statunitensi, location e attori britannici, regista norvegese (Morten Tydlum), compositore francese (Alexander Desplat).

The Imitation Game rende omaggio alle strutture a incastri temporali oggi di moda, spaziando su tre epoche: ma il racconto è tradizionale, con scontati colpi di scena che creano tensione a scapito della verosimiglianza. Esempi: al colloquio d’assunzione, il Comandante della scuola di decifrazione sta cacciando Turing, irritato dal suo tono arrogante, ma all’ultimo momento il matematico dice la cosa giusta e ottiene il posto. Prova per selezionare i migliori decrittatori del regno: Joan arriva in ritardo, dopo un battibecco Turing la ammette e – sorpresa! – è la migliore di tutti. I crittografi sono sconsolati perché la macchina di Turing non funziona: ma come nella Signora in giallo, una frase casuale detta da qualcuno fa scattare il colpo di genio e Turing in pochi minuti – dopo anni di tentativi! – risolve l’enigma. E così via.

Molto discutibile è l’omissione della sessualità del matematico: dichiarata ma mai esplicitamente raccontata, al punto che il personaggio non sembra gay ma asessuato. Come se il composto ritratto d’ambiente della vecchia Inghilterra avesse inibito il film, spingendolo a sposare l’ipocrisia vittoriana di cui è stato vittima Turing. Il film lascia fuori campo tutti gli aspetti scabrosi della vicenda: omosessualità, suicidio, il paese che prima chiede il suo aiuto e poi lo abbandona finita la guerra. Valgono a poco le didascalie che raccontano il risarcimento dell’immagine del matematico, graziato nel 2013 dalla regina Elisabetta II e pienamente riabilitato. Perché non raccontano le logiche che hanno generato l’esclusione sociale: confortano semplicemente lo spettatore dicendogli che è stato rimesso tutto a posto.

Paradossalmente, The Imitation Game è l’agiografia del genio e dell’eroe, ma non il ritratto dell’uomo, lasciato in disparte con le sue presunte irregolarità. L’ha definito bene Cumberbatch, una “personalità disarmonica”, cui offre un ritratto misurato per farne emergere il carattere bizzarro e ostinato. L’ingessato contesto del film, più interessato alla corsa agli Oscar che alla verità storica, non consentiva di più.