Diaz di Daniele Vicari racconta uno dei momenti più controversi del G8 di Genova nel luglio 2001: le violenze perpetrate dalle forze dell’ordine a danno dei manifestanti no-global nell’irruzione alla scuola Diaz e successivamente alla caserma di Bolzaneto. “La più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale”, secondo Amnesty International; la “macelleria messicana”, come la definì al processo un poliziotto che partecipò all’azione (nel film è Claudio Santamaria).
La ricostruzione di Vicari si appoggia sulla verità giudiziaria. I titoli di coda dichiarano che “i fatti narrati sono tratti dagli atti processuali e dalle sentenze della Corte d’appello di Genova” (a cui seguì, dopo l’uscita del film, la sentenza definitiva in Cassazione, senza novità sostanziali).
Diaz quindi non è una “contro-inchiesta” alla ricerca di una verità alternativa. È piuttosto figlio della fiducia nel cinema come strumento politico, capace di scuotere le coscienze attraverso l’evidenza della rappresentazione. Punta sulla ricostruzione meticolosa dei fatti per far cogliere l’enormità dell’infrazione dei princìpi democratici. Ed enorme il film lo è davvero: un racconto corale con decine di personaggi (volti noti in piccoli ruoli come Elio Germano e Renato Scarpa) che parlano cinque lingue, ottomila comparse, location – scuola Diaz, Bolzaneto, le strade di Genova – ricostruite sul set alla periferia di Bucarest. Uno sforzo produttivo inusuale per il cinema italiano.
Con quali esiti? Dal punto di vista cinematografico piuttosto discutibili. Vicari mette in scena un fedele resoconto degli eventi in lunghissime sequenze di sevizie quasi insostenibili, per restituire il senso allarmante della violenza perpetrata. Ma non ci sono moventi né mandanti: la catena del comando e la strategia a monte dell’azione di polizia restano indeterminate e mancano i nomi dei colpevoli. Alla puntigliosa ed efferata cronaca, quindi, non si aggiunge una verità storica che vada oltre le generiche colpe delle forze dell’ordine e della politica (semplicisticamente sintetizzate in una dichiarazione ufficiale di Berlusconi).
Forse Vicari voleva proiettare il senso di smarrimento assoluto dei ragazzi torturati – che restano letteralmente “al buio”, immersi in una tenebra quasi perenne, fisica e metaforica – su uno spettatore completamente privato di coordinate interpretative e dunque anche lui “violentato”, come i dimostranti e la democrazia.
La macchina da presa resta incollata ai corpi e al loro martirio, in un costante primo piano che tiene alta la temperatura emotiva della messa in scena – a tratti effettistica e ambiguamente spettacolare –, ma non aiuta a comprendere il contesto e le logiche soggiacenti agli accadimenti.
Così Diaz corre due rischi, compresenti e di segno contrario: da un lato di sembrare un film militante, che non ha bisogno di approfondire perché parla a un pubblico pregiudizialmente convinto; dall’altro di addebitare la violenza al sadismo fascistoide di forze dell’ordine piene di teste calde. Letture unidirezionali e semplificatorie che non rendono giustizia alla complessità di un evento che ha inciso profondamente nella storia italiana recente.