Il documentarista statunitense Frederick Wiseman riceve oggi il Leone d’oro alla carriera al festival di Venezia: l’altro premio alla carriera è stato assegnato a Thelma Schoonmaker, montatrice di fiducia di Martin Scorsese. Il premio a Wiseman è il suggello di una stagione all’insegna del documentario, testimoniata dal Leone d’oro a Sacro Gra di Gianfranco Rosi l’anno scorso e la vittoria all’ultimo festival di Roma di Tir di Alberto Fasulo, che deve molto allo stile documentaristico.
Il fascino del documentario oggi è forse legato alla sua modalità di lavorazione, che richiede molta preparazione e lunghi tempi spesi sul campo per studiare il contesto, con un’attitudine da antropologi. Al cinema bisogna spesso fare tutto velocemente: il documentario sembra un lusso che si oppone al cinema mainstream, alla ricerca di uno sguardo più meditato e rispettoso su cose e persone.
Questa è una delle chiavi del cinema di Wiseman, che in una quarantina di titoli ha raccontato principalmente le istituzioni sociali americane: il manicomio criminale in Titicut follies (1967), la scuola in High school (1968), il dittico di Hospital (1968) e Welfare (1975) su ospedali e assistenza sociale, un reparto per malati terminali in Near death (1989), la vita di una comunità in Belfast, Maine (1999).
Non si pensi a semplicistici lavori di denuncia: in questo senso, si perdoni la banalizzazione, Wiseman è l’opposto di Michael Moore. Quelli di Moore sono film a tesi che sfruttano la sua ingombrante presenza per costruire discorsi unilaterali. Wiseman invece si rende invisibile, per ottenere uno stile nel quale contraddizioni e ambiguità emergano dai fatti stessi. Per questo i suoi sono racconti corali, con molti personaggi: per restituire la complessità del reale e mostrare attraverso i dialoghi la molteplicità delle tesi e la dialettica interna alle istituzioni.
http://youtu.be/9-XSlOWAJMw
Wiseman ha talvolta definito il suo lavoro “reality fiction”: consapevole che, se raggiungere la veridicità dei fatti è l’obiettivo, è però impossibile restituirli in maniera “oggettiva”, perché la macchina da presa e la forma cinematografica del racconto costituiscono necessariamente un filtro, che comporta un certo grado di manipolazione dei contenuti. La rappresentazione trasparente della realtà non si ottiene facilmente: e anche noi spettatori comuni, dopo quindici anni di fasulli reality show, abbiamo capito che la realtà si nasconde sotto uno strato di pregiudizi che stanno nell’occhio di chi filma e nell’atteggiamento di chi è filmato.
Non basta accendere una telecamera e riprendere: per raggiungere il massimo grado possibile di realtà bisogna immergersi sotto la superficie degli stereotipi ed essere disposti a comprendere, salvaguardando la ricchezza di senso e l’ambiguità intrinseca delle cose. Questo fa Wiseman in ogni aspetto della lavorazione: la fase di osservazione prima e durante le riprese, il suono in presa diretta, la coralità delle storie, il montaggio che svela e non dimostra. Il cinema di Wiseman, siamo franchi, non è per tutti i gusti: speriamo che il Leone d’oro lo aiuti a ottenere la meritata diffusione.