Venezia 71 – Al lido il primo film italiano, La vita oscena di Renato De Maria, nella sezione Orizzonti

Tratta dal romanzo autobiografico di Aldo Nove, è la storia della caduta e rinascita di un adolescente rimasto improvvisamente orfano. Un film dall'indubbio fascino visivo, che però non convince.

Festival Venezia 71 La vita oscena Renato De Maria

INTERAZIONI: 27

Al festival del cinema di Venezia ieri, nella sezione Orizzonti, è stato proiettato il primo film italiano al lido, La vita oscena di Renato De Maria, tratto dal romanzo omonimo di Aldo Nove. Un racconto che è la vera storia di Nove il quale, poco più che adolescente, perde in pochi mesi entrambi i genitori, il padre improvvisamente e la madre dopo una lunga malattia. Dopo diversi tentativi di suicidio, il ragazzo si trasferisce a Milano, subisce l’ostilità di un ambiente estraneo e si consegna a una vita di eccessi tra sesso e stupefacenti per anestetizzare la perdita e perdersi definitivamente egli stesso. È una storia dalla quale si comprende più chiaramente anche la passione caratteristica della scrittura di Nove per gli oggetti e le merci – su cui insiste anche il film – perché, scrive, “riempirsi di cose è un modo che usiamo per sentirci il più lontano possibile dal nulla. Per questo le case si riempiono di elettrodomestici e di lampadari. Bisogna smuovere tutto, cambiare tappezzeria. Perché la morte è quando tutto resta fermo”.

La vita oscena è sul piano tematico gemello di altre pellicole di Renato De Maria, che già in Hotel paura (1996) raccontava la crisi di un manager in caduta libera dopo il licenziamento; e pure Amatemi (2005) si incentrava sullo slittamento della vita, in quel caso una separazione che spingeva una donna ancora giovane a riscoprirsi attraverso avventure erotiche casuali.

Sceneggiato dal regista e dallo stesso Aldo Nove, il film lascia interdetto per il tono: sulla carta è una discesa agli inferi, tra tentativi di suicidio, droghe e sesso estremo, un percorso di bruciante autodistruzione. Ma la scelta di far commentare alla voce fuori campo – dell’attore teatrale Fausto Paravidino – tutte le azioni e sensazioni del protagonista, depotenzia la forza del racconto. Un’autocoscienza troppo ingombrante: descrive azioni e sensazioni, applica metafore poetiche e tira anche le somme esistenziali. E così le immagini sembrano più le illustrazioni di uno stato d’animo esterno che un racconto in presa diretta di caduta e risurrezione.

L’universo visivo del film, fotografato da Daniele Ciprì, ha indubbiamente un suo fascino: le immagini colorate e oniriche della vita con i genitori, una madre bizzarra e antiautoritaria, interpretata da Isabella Ferrari e un padre anch’egli dolcissimo, Roberto De Francesco; il grigiore livido e compatto della Milano in cui si trasferisce una volta orfano il protagonista – di cui Clément Métayer offre un ritratto monocorde.

Ma è un album di foto-ricordo un po’ stinte, che la voce fuori campo onnisciente sfoglia e commenta in modo didascalico: “In quel momento tutto era la mia morte”, dopo l’incontro con una mistress; “le storie vengono da un luogo lontano, un posto dove siamo già stati”, quando ormai il protagonista, anche grazie alla sua passione per la poesia, ha trovato una soluzione alle sue angosce. E così un allarmante tentativo di autodistruzione si trasforma in un più tranquillizzante percorso iniziatico verso la felicità, illustrato da una serie di immagini sin troppo curate ed estetizzanti.