Quando nell’aprile del 1992 esce in sala Il Ladro di Bambini, che il mese successivo avrebbe vinto il Gran premio speciale della giuria a Cannes, non è ancora chiaro che quell’anno avrebbe costituito uno spartiacque nella storia d’Italia. Il 30 gennaio viene emessa la sentenza definitiva di Cassazione del maxiprocesso contro la mafia istruito dal pool di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – la sentenza di primo grado, che aveva già portato a 346 condanne, era datata dicembre del 1987. Il successivo 17 febbraio del 1992, il presidente del Pio Albergo Trivulzio ed esponente di spicco del partito socialista milanese Mario Chiesa – il “mariuolo”, come lo definì Craxi per minimizzare il caso – è arrestato in flagranza di reato nell’atto di incassare una tangente di sette milioni, dando il via all’inchiesta Mani Pulite e al terremoto istituzionale di Tangentopoli.
Il 12 marzo, come prima ritorsione dopo il risultato del maxiprocesso, il Clan dei Corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano uccide in un agguato il democristiano già sindaco di Palermo Salvo Lima, referente politico della mafia. Il 23 maggio e il 19 luglio dello stesso anno perderanno la vita Falcone e Borsellino, trucidati insieme alle loro scorte in due paurosi attentati.
Naturalmente Il Ladro di Bambini, uscito nel bel mezzo di quell’enorme rivolgimento che la vulgata giornalistica avrebbe definito di passaggio dalla Prima alla cosiddetta Seconda Repubblica, non poteva in alcun modo costituire una riflessione in presa diretta su quel passaggio epocale. Eppure in qualche modo, il film di Amelio è in grado di captare e dare voce alle tensioni che stava vivendo il paese. Le quali, all’altezza del 1992, erano anche il risultato di un processo di trasformazione di più lungo periodo, che partendo dalla stagione dell’impegno politico degli anni Settanta e dell’esasperazione ideologica sfociata nel terrorismo (cui aveva dedicato il notevole Colpire al Cuore) era passata poi attraverso il ripiegamento nel privato, sino all’euforia degli anni Ottanta della ripresa economica nel segno di un ammodernamento di stampo americano – anche nel linguaggio, stili, estetica –, il cui campione poteva essere considerato Silvio Berlusconi.
Di fronte a questi rapidi e drastici rivolgimenti, ognuno sintetizzato da etichette a forte rischio di semplificazione – gli anni di piombo, il riflusso, la Milano da bere – l’opzione da cui parte Amelio per capire cosa effettivamente stesse accadendo nell’Italia dei primi anni Novanta, consiste nel porsi in ascolto della realtà, tornando a filmare e raccontare sul campo il paese, mediante una finzione fortemente intrisa di spirito documentario.
Si tratta di un’operazione, il cinefilo appassionato Amelio ne è ben consapevole, di impronta neorealista – la critica parlò subito, anche in riferimento ad altri film, per esempio di Marco Risi, di neo-neorealismo –, memore della lezione del pedinamento di Cesare Zavattini (e Vittorio De Sica) quanto dell’approccio fenomenologico di Roberto Rossellini. E se i capolavori del cinema postbellico avevano raccontato le macerie morali e materiali di un paese appena uscito da una guerra, Amelio in questo film – insieme agli sceneggiatori Sandro Petraglia e Stefano Rulli – volge la sua attenzione a macerie apparentemente meno visibili che però dopo poco sarebbero state rovinosamente percepibili – la strategia della tensione di Cosa nostra tra il ’92 e il ‘93, con gli attentati di via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano, le autobombe contro la Basilica di san Giovanni in Laterano e la Chiesa di Santa Maria del Velabro a Roma.
Amelio con Il Ladro di Bambini, titolo che ricalca volutamente il capolavoro Ladri di Biciclette, si pone sulle tracce del paese, costruendo un “viaggio in Italia” – altro essenziale capodopera rosselliniano – da Milano alla Sicilia, raccontando allo stesso modo del neorealismo gli umiliati e offesi attraverso cui è davvero possibile comprendere le trasformazioni in atto. Il film è la storia di due fratelli siciliani, l’undicenne Rosetta (Valentina Scalici) e Luciano, nove anni (Giuseppe Ieracitano), la cui potestà genitoriale è stata tolta alla madre perché, a Milano, costringeva la bambina a prostituirsi. Il giovane carabiniere calabrese di belle speranze Antonio (Enrico Lo Verso), lasciato solo da un collega a caccia di avventure, deve tradurli all’istituto per minori di Civitavecchia, che però si rifiuta di prendersene carico. Di lì il trasferimento a Gela, verso un secondo istituto.
È un road movie lucido e commovente Il Ladro di Bambini, che tiene sempre insieme il doppio binario del racconto. Da un lato storia dell’incontro di tre esseri umani – con l’iniziale diffidenza professionale di Antonio che si scioglie in un’intimità scopertamente paterna –, dall’altro affresco sulla mutazione del tessuto tanto sociale che fisico del paese. In questa ansia di realismo documentario, Amelio riprende aggiornandoli molti dei dispositivi dell’estetica neorealista: l’attenzione agli ultimi, l’amalgama tra attori professionisti e non, la struttura paratattica di una narrazione che s’avvantaggia delle occasioni fornite dalla realtà senza chiudersi nei rigidi rapporti di causa-effetto di sceneggiature scritte troppo bene e meccanicamente, il finale aperto.
Di suo aggiunge, diversamente dal ricorso al doppiaggio del vecchio cinema italiano, l’uso della presa diretta, che registra i suoni di un’Italia caotica e disordinata, con canzoni, radio e televisioni, cadenze dialettali di voci autentiche, e su tutto il costante brusio di fondo della quotidianità. Il ritratto che emerge è insieme severo, demoralizzante e pieno di una incoercibile speranza. Quella sorta di famiglia irregolare composta da Antonio, Rosetta e Luciano fa esperienza sulla propria pelle – esattamente come il padre e figlio Antonio e Bruno Ricci di Ladri di Biciclette – dell’estraneità, la cattiveria diffusa di un mondo che non è disposto a tendere loro una mano. Tutto congiura contro i tre protagonisti: l’istituto cattolico che non vuole Rosetta, le maldicenze della gente che riconosce la bambina messa in copertina su di un giornalaccio scandalistico, la mancanza di comprensione del maresciallo (Renato Carpentieri) che sottopone Antonio a un interrogatorio umiliante, trattandolo come un sequestratore.
Di “italiani brava gente” – a proposito di altre etichette e stereotipi duri a morire – non c’è traccia ne Il Ladro di Bambini. E non c’è traccia di grande bellezza paesaggistica, come evidenzia l’episodio calabrese del film – la Calabria di Antonio e di Gianni Amelio – che mostra una porzione esemplare di un’Italia accozzaglia informe di edifici mezzo costruiti e mezzo diroccati, in un eterno non finito senza visione e senza progetto che si fa corposa allegoria di una nazione mancata.
Insieme, resta la nota di ottimismo legata all’istintivo senso di altruismo di quei pochi, ladri di bambini e cercatori di umanità come Antonio e i due fratelli, che nella forza del loro legame affettivo trovano una ragione, chissà se sufficiente, per andare avanti. Il cinema della realtà di Amelio, specialmente qui e nei due successivi Lamerica (1994) e Così Ridevano (1998), tocca l’apice della sua ispirazione. E Il Ladro di Bambini, per la capacità di riannodare all’oggi la lezione civile del neorealismo, rinnovandola e rivivendola, resta il film italiano più bello e importante degli ultimi trent’anni, una sommessa lezione di etica ed estetica che non ha perduto un grammo della sua urgenza.
Il Ladro di Bambini è attualmente disponibile sul canale Minerva Classic di The Film Club, Apple Tv, Rakuten Tv