Ma non è vero che sempre si nasce incendiari e si muore pompieri. No, non è vero. Qualcuno nasce incendiario e muore delle sue fiamme. Bruciando senza pietà. Urlando di dolore e di una rabbia che il tempo ha solo acuito. Arab Strap, il duo scozzese, si ricoagula dopo sedici anni e le sue composizioni fanno più male che mai. Uno strazio denso e crudele, fatto di parole di rasoio e di suoni più pieni, più puliti di allora, quei fine Novanta quando il mondo si preparava per andare non sapeva dove. Più netti e più ricchi, ma non patinati. Oh, no, per niente. Adesso che il mondo non si cura più di andare da qualche parte, si rotola addosso in un’orbita senza più disperazione tra pandemie, guerre risorgenti e una disidratazione dell’individuo, ridotto uno scheletro di pesce sulla spiaggia. Milioni, miliardi di scheletri davanti al mare aperto. Aidan Moffat, voce e altro, e Malcom Middleton, tutto e quant’altro, sono invecchiati, anche loro, certamente. Più chirurgici nella loro angoscia e non si sa da dove partire per sviscerare questo As Day Get Dark, uscito da qualche settimana ma cresciuto col tempo, con gli ascolti: opera da tenere fra le cose che non passeranno.
Non si sa da dove cominciare, come prenderli perché le parole di lama sono funzionali ai suoni di raggelante fiamma che sono al servizio di liriche narranti squallore, in una spirale vertiginosa verso l’abisso. Debbono esserci ancora, in Scozia, se li cerchi, quegli scenari postindustriali di mattoni rossi e di umanità imbruttita, abbrutita, debbono pur esserci anche se non esistono più; forse sono fantasmi, e Aidan e Malcom sono cacciatori di spettri. I loro anzitutto. I loro, che diventano quelli di tutti: e te li portano, e sfuggirgli non puoi.
La processione dei perdenti, una desolazione fiamminga, una maledizione di Bosch di disadattati avvolti da una trama sonora che, al ritmo infero di battiti sintetici ora tachicardici ora bradicardici, lambisce il jazz, indugia nell’elettronica, indulge a qualche staffilata di chitarra, confonde soluzioni nervose, rumorose perfino con arabeschi acustici: n’esce la narcosi di un eterno pomeriggio d’autunno o di quella primavera che non fiorisce, che abortisce addosso a palazzi di mattoni rossi, termitai di squallore dove non c’è altro da fare che bruciare un altro giorno senza cielo.
Questione di quello che i poeti chiamavano spleen ed ennui; manca l’idéal, manca lo stato di pace dell’identità perduta e ritrovata conquistando l’armonia con l’universo. Non è previsto nella musica ritrovata degli Arab Strap e questi testi di Moffat non sono versi messi lì a caso, sono poesie in sé. Squarci di consapevolezza del nulla, consapevolezza che non resta niente da sapere. Agitati da visioni malefiche della miseria qualunque, “mentre la tua siringa si rompe sotto il mio stivale/ti sei schiantato sul divano/resto fuori in veranda/un tale amante, un tale bugiardo, un tale bruto/e con le prove distrutte/il tuo sonno sarà suono”. Per altri sarebbe il trionfo della velleità estetizzante. Per questi due diventa l’unica verità, condita da suoni curatissimi, ritmi implacabili, dettagli caleidoscopici per ansimare di quello svuotamento controllato che non ti fa esplodere ma solo affondare.
È un disco rock e insieme non lo è. Cristo, è tutto così reale! Siamo noi quei rifiuti chiusi nelle nostre stanze. Senza infingimenti, senza compromessi siamo noi. Con la nostra stanchezza, la voglia di non alzarci al mattino e di schiantarci sul letto appena possibile. Siamo noi che ci facciamo pietà e ribrezzo, i nostri fallimenti cullati come figli, la rovina unica eredità che nessuno raccoglie.
Dovremmo parlare delle singole tracce? Dell’epica polverosa da far west suburbano di Once I Was A Weak Man? Una volta ero un debole, ma adesso cosa sono? Malato? Inchiodato su un divano pieno di briciole e di acari? Dalla pandemia che non dà scampo ai malati come ai sani? Dalla pandemia della mente, della fine dei giorni? C’è un video lì: è quello di Here Comes Comus, e non guardatelo. Non guardatelo, per amor vostro, se non siete forti di stomaco e duri di cuore. È violentissimo. È maligno. Questo è un disco rock. Non rinuncia al marchio di fabbrica, quegli arpeggi insinuanti e implacabili, per disegnare orizzonti d’infamia ricamati dagli archi, da sibili ed effetti; da ricerche melodiche che, dovendo inseguire il male, diventano ciò che fa più male e accrescono il male. Non c’è luce in questo disco, c’è una lattigine da fine del mondo, cantata, suonata da due che da giovani erano sfigati e adesso sono misantropi. E dei misantropi hanno la saggezza apocalittica, definitiva e hanno il cinismo della ragione. Di chi aveva ragione e adesso si gode il trionfo della sconfitta.
Quello che ci manca è tutto il resto. Per questo non ci rimane che ricominciare dall’inizio, ancora e ancora: abbiamo una colonna sonora, la nostra tragedia non è mai suonata così bella, così scintillante. Così irrimediabile.