Quando dai notiziari parlarono della morte di Amy Winehouse il mondo intero credette di vivere un’allucinazione. Di nuovo una rockstar e di nuovo quel 27 che ha sempre scatenato le teorie più assurde sull’oscuro destino degli idoli maledetti. Maledetti, certo, ma che al loro passaggio sulla Terra donano a tutti la loro benedizione.
Alle 15:30 del 23 luglio 2011 il corpo della bellissima voce di Back To Black giaceva privo di vita nel suo letto al numero 30 di Camden Square, a Londra. La sera prima aveva consumato il suo pasto nella sua camera da letto in compagnia di se stessa: di fronte a sé, infatti, scorrevano le immagini dei suoi video presenti su YouTube.
“Non l’aveva mai fatto”, raccontò la sua guardia del corpo, Andrew Morris, che si trovava in casa con lei. Tra i due c’era un rapporto simbiotico, un affetto che somigliava tanto a quello che corre tra un fratello e una sorella. Per questo la mattina del 23 Morris entrò nella stanza di Amy e, vedendola sdraiata, la credette addormentata e non ebbe sospetti.
Amy Winehouse aveva dato speranza al soul, gli aveva donato quel calore mainstream che da troppi anni mancava, in quella decade in cui l’hip hop, il reggaeton e tutta la musica destinata al ballo e alla movida avevano conquistato un certo terreno discografico.
In vita pubblicò due album, si impose sulla scena con la spavalda Rehab, e coinvolse tutti in quel mondo d’altri tempi che oggi continua, che l’aveva già resa eterna. La sua voce divenne iconica e creò un canone al quale tanti artisti – anche in Italia e con pessimi risultati – ancora oggi tentano di allinearsi.
Quando Morris si recò nuovamente nella sua stanza, però, quella voce si era già spenta. Attorno a lei tante bottiglie di vodka, di fronte a lei il Paradiso. La morte di Amy Winehouse non è quella di un’anima dannata: è il passaggio a un livello superiore di un angelo fragile.