Il cinese Wei Ling Soo, l’illusionista più celebrato degli anni Venti, è in realtà lo scorbutico britannico Stanley Crawford (Colin Firth), grande smascheratore di ciarlatani. Su invito di un suo vecchio collega, si reca in Costa Azzurra per screditare una giovane medium, Sophie Baker (Emma Stone), che ha soggiogato la facoltosa signora Catledge, desiderosa di entrare in contatto col defunto marito.
Le eccezionali doti di Sophie convincono Stanley, felice di essere smentito, perché stufo del pessimismo razionalista che gli rende la vita sicura ma priva di senso. La ragazza, con il suo talento e il coinvolgente fascino, giunge come la fresca bellezza di un panorama della Riviera a incrinare le sue grigie certezze, facendogli riscoprire i colori della vita.
È più che naturale l’ambientazione di Magic in the Moonlight, nuovo film di Woody Allen: nulla è più magico e seducente degli anni Venti e del sud della Francia in cui il regista immerge il suo protagonista depresso e infelice. Stanley indossa una maschera tranquillizzante di logica stringente – la sua magia è frutto di espedienti calcolatissimi, controllati con scrupolo ossessivo –, che lui condisce con supponenti citazioni nietzschiane. Eppure quest’uomo non attende altro che questo mondo insapore crolli: Sophie, prima che una medium, è una donna che fa esplodere una passione che Stanley non credeva potesse esistere.
In Magic in the Moonlight i piani si sovrappongono: il film sembra una riflessione su religione e razionalismo – temendo per la vita dell’amata zia, Stanley comincia a pregare un Dio cui non crede –, ma in realtà, è d’amore e sentimenti che si parla. È quello il vero sovrasensibile, l’essenziale invisibile agli occhi che guida le nostre vite e dona loro un senso inatteso.
E tutto questo, come Allen sostiene da sempre, accade al cinema, vero regno della magia. Non è Sophie a compiere il miracolo di comunicare col mondo dei morti, ma il cinema, che ricrea con calligrafia commovente gli anni Venti del secolo scorso e li rende credibili per gli spettatori, sedotti da quel mondo garbato ed elegantissimo. Dai tempi di Provaci ancora Sam, dove parlava con Bogart, o La rosa purpurea del Cairo, in cui il personaggio di celluloide diveniva reale, Woody Allen è convinto che l’autentica, salvifica illusione sia il cinema, capace di incatenarci a un sogno più gratificante del reale.
Il problema è che, come nei numeri di magia visti troppe volte, il pubblico ormai capisce il trucco. Si accorge che il fondale della Riviera, illuminato da luci morbidissime, è di cartapesta. Percepisce la falsità di quel decennio ricreato con un’invadente colonna sonora d’epoca e figurine troppo uguali a se stesse, come il sentimentale innamorato di Sophie, sempre vestito in modo inappuntabile e sempre a strimpellare canzoni d’amore all’ukulele.
Ovviamente Allen sa bene che è tutto falso: semplicemente ha scelto di continuare a credere al cinema cui è fedele come un innamorato. Sta a noi spettatori decidere se farci trasportare dallo stesso incantamento o stracciare il fondale per cercare un cinema più sintonizzato sulla contemporaneità.
Ho visto volentieri il film,piu` di una volta..
secondo me quello che guasta questo film non sono gli scenari ‘ di cartapesta’ ma bensi` il digitale che appiattisce.