C’è una storia che vale la pena di andare a vedere, perché è una delle nostre storie più recenti. È una storia italiana, anzi, è la storia italiana de La zuppa del demonio di Davide Ferrario, presentato fuori concorso a Venezia 71. Dino Buzzati usò questo termine per la prima volta nel 1964, lo coniò per indicare il prodotto della colata di un altoforno, a margine del documentario Il pianeta acciaio. Erano anni in cui lo sviluppo ed il progresso della grande industria erano sinonimo di progresso e di crescita economica, con tutti i risvolti positivi annessi, ma sottovalutando ciò che poteva derivarne come “prodotto di scarto”. Complice la lunga scia del boom economico e strategie economico-politiche quasi d’obbligo in quegli anni, l’Italia cresceva davvero, in un certo senso, ma allo stesso tempo, gettava paradossalmente le basi per una sorta di “destrutturazione” (in un altrettanto ampio senso), di cui ancora oggi se ne avvertono i risultati.
Ci si comportava come in una corsa su di una monorotaia; senza possibilità di frenare o almeno di rallentare. C’è da rabbrividire, nella migliore delle ipotesi, nel vedere scorrere immagini di automobili gettate a mare perché invendute. O nell’osservare lo sradicamento di ulivi secolari nella zona di Taranto, per fare posto all’ILVA. Una grande industria che lavoro ne diede sicuramente, ma che, senza scadere in facili dietrologie, poteva essere quantomeno monitorata di più nel suo devastante impatto ambientale. È pur vero che a qualcuno, legittimamente, verrebbe da puntualizzare il “facile parlare col senno di poi”; probabile quanto meno semplicistica critica ipotizzabile per il lavoro di Davide Ferrario.
Ma, a ben guardare, non è questo il caso. La retorica, che comunque traspare nello scorrere cronologico e sequenziale, ed a tratti metabolizzata dal montaggio stesso, appartiene di default più ai pensieri e agli slogan dell’epoca che al documentario stesso.
D’altro canto il materiale usato è parte integrante dell’archivio nazionale del cinema di Impresa di Ivrea: riguarda filmati realizzati dalle stesse aziende protagoniste in Italia nel periodo studiato (Fiat, Olivetti, etc.).
È per questo che, a ben vedere, la ricostruzione del regista appare più imparziale di quanto si possa insinuare. Sono certamente presenti commenti e citazioni che cullano il messaggio e lo veicolano verso amare riflessioni ma la storia, anche in questo caso, riserva un margine di anticipo, di previsione, che resta pur sempre un obiettivo al quale protendere: certi errori forse si potevano almeno mitigare o prevedere in parte, oppure no?
La presunzione di una certa idea di progresso tesa a vedere nella natura essenzialmente, o addirittura unicamente, un complesso di elementi da dominare e soggiogare con la forza della tecnologia, non era sicuramente nuova: affondava le sue radici in teorie e concetti che avevano germogliato già tempo addietro. Ma il discorso è ampio e non è facile districarsi.
Rimane perciò questo prodotto, il risultato, un documentario che ha valore di contributo, sul quale adagiare dibattiti e riflessioni, a beneficio di generazioni future, il tutto agevolato anche dagli autorevoli contributi di Giganti del pensiero come Pasolini, Marinetti, Buzzati, Gadda ed altri ancora. Siamo sempre in tempo. Siamo ancora in tempo per decostruire un dibattito da un punto di vista polemico-politico. Non è il caso di addossare la colpa alla destra, alla sinistra, o al centro. Non è opportuno, almeno in questo momento storico. È opportuno invece il consiglio di andare a studiare un po’ più di noi, per capire e orientarci su decisive scelte fatte nel passato, e di cui ancora si avvertono e si avvertiranno gli effetti per lungo tempo. Nel bene e nel male. Dall’11 settembre, nei cinema italiani, con la Zuppa del demonio c’è dunque l’opportunità di riflettere con lucidità e senza polemica: sarà un po’ come osservarsi attraverso un grande specchio.