Quando Carroll Shelby (Matt Damon) e Ken Miles (Christian Bale) cominciano a darsele di santa ragione mentre l’amorevole moglie (Caitriona Balfe) di quest’ultimo si siede a godersi lo spettacolo, si capisce che Le Mans ’66. La Grande Sfida è un film hollywoodiano vecchio stile, prossimo a quei western in cui le innocue scazzottature erano il modo in cui gli uomini veri appianavano le loro divergenze.
L’eccezionale pilota Miles, infatti, quando corre a 300 all’ora sprona la sua auto dicendole “Avanti bella, andiamo!”, come poteva fare John Wayne col suo cavallo. Le Mans ’66, diretto da James Mangold, uno che di western ne ha girati, autentici – Quel Treno Per Yuma – o sotto mentite spoglie – il supereroistico e crepuscolare Logan – ha confezionato un film affettuosamente classico, come non se ne fanno più. Con gli eroi e le loro motivazioni ben in primo piano. Con una netta, tranquillizzante divisione tra buoni e cattivi e una storia elettrizzante da raccontare.
La vicenda, autentica, ripercorre il braccio di ferro tra la Ford e la Ferrari – in originale infatti il film si chiama Ford v Ferrari – per la vittoria nella leggendaria 24 ore di Le Mans, la più prestigiosa delle prove del campionato endurance. Una gara storicamente dominata dal cavallino rampante di Maranello alla quale a metà anni Sessanta, a caccia di uno stratagemma per risolvere la crisi di vendite e svecchiare l’immagine del marchio, decide di concorrere la casa automobilistica americana di Henry Ford II (Tracy Letts). Sulle prime il tycoon cerca di comprare la Ferrari, ma quando il fiero Enzo (Remo Girone) lo apostrofa in malo modo (“Non sei Henry Ford, sei solo il secondo”), allora diventa un fatto personale.
Viene assunto l’unico uomo in grado di portare al trionfo la Ford, Carroll Shelby, che a Le Mans ha già vinto, costretto poi a ritirarsi per problemi cardiaci e riciclatosi come progettista di auto sportive. Shelby, che ha il volto all american di Matt Damon, ha negli occhi il riflesso triste del cowboy in disarmo che ha perso la sua ragione di vita, il brivido della corsa, e insieme il lampo nello sguardo di chi è a caccia d’una nuova sfida. E lui sa che per vincerla ha bisogno di Ken Miles, pilota e meccanico straordinario e però eccezionale attaccabrighe mai disposto al compromesso.
Il grande interrogativo di Le Mans ’66 è duplice: riuscirà il diplomatico Shelby a domare il suo cavallo di razza? E riusciranno, insieme, a sconfiggere i burocrati della Ford, su tutti un ottuso vicepresidente (Josh Lucas), che non capendo niente di corse e preoccupati solo di ossequiare il Grande Capo, fanno di tutto per mettere i bastoni tra le ruote ai due fuoriclasse?
Il film affascina proprio per la sua semplicità, rispecchiata da una messinscena classica che invece di rifugiarsi negli espedienti tipici del cinema adrenalinico recente, timelapse, freeze frames, droni, opta per immagini terse e lineari, inquadrature in soggettiva delle auto ad altezza strada e primi piani del pilota e dei suoi gesti nell’abitacolo.
Guardando Le Mans ’66 lo spettatore sa sempre chi sono gli eroi e quali gli antagonisti e parteggia per i buoni e i valori che incarnano. Che sono il talento dell’individuo contro le ambiguità delle organizzazioni impersonali. E il valore dell’istinto di chi conosce perfettamente il proprio lavoro contro la propensione ai numeri e le procedure dei grigi tecnocrati.
Sotto sotto il film, che pure è raccontato esclusivamente dal punto di vista degli americani, ha più rispetto per il bizzoso ma autentico Enzo Ferrari – che infatti omaggia cavallerescamente il talento di Ken Miles – che per il tronfio Henry Ford II, che Shelby sottopone a una prova di velocità dalla quale si capisce, tra i due, chi è il vero uomo. Perché “c’è un momento in cui a 7.000 giri al minuto tutto svanisce. La macchina diventa senza peso. Scompare. Resta un corpo che attraversa lo spazio e il tempo. È a 7.000 giri al minuto che l’incontri. È là che ti aspetta”. Ed è in quel frangente che resti solo con te stesso, obbligato a chiederti che tipo d’uomo sei.
Le Mans ’66 è un film di sentimenti trasparenti, in cui i protagonisti sono privi di ambiguità e sfumature, integralmente dediti alla professione, senza che mai qualcosa li distolga dalle proprie ossessioni. Ed è una ricetta questa, che nella sua psicologia elementare, finisce sempre per appassionare lo spettatore.