Cosa non si fa per parlare del secondo album dei Led Zeppelin? Sapevo bene che per salvare dalla trap il piccolo Giorgio, il mio nipotino di 8 anni, sarebbe bastato lo storico riff che apre e accompagna Whole Lotta Love. Scoprire che Led Zeppelin II può entrare nelle grazie anche di un marmocchio che a malapena conosce il nome degli strumenti più comuni sì, mi riempie di orgoglio. Se un vecchio adagio recita: “Anche l’operaio ha il figlio dottore”, oggi mi piace riformularlo così: “Anche l’articolista musicale ha il nipote rockettaro”. C’entra quanto i cavoli a merenda col detto originario ma credetemi: ora Giorgio si incanta quando sente il suono superdotato del basso di John Paul Jones in Heartbreaker.
Era il 1969 e i Led Zeppelin, in 6 mesi, si spostavano tra Londra, New York, Vancouver e Los Angeles, e nei loro bagagli non custodivano solo le birre o le mutande pulite. Tra i vestiti di ricambio e le sigarette, infatti, nascondevano i nastri master del nuovo album, cresciuto e maturato durante il tour. Solamente nel gennaio dello stesso anno la band aveva lanciato l’album di debutto – quello di Good Times Bad Times e Dazed And Confused, per intenderci – ma l’etichetta Atlantic Records esigeva dalla band una nuova opera da buttare fuori entro Natale. Il risultato fu l’album più heavy dei Led Zeppelin, con John “Bonzo” Bonham tanto preciso quanto violento su quelle pelli, talmente infogato che nelle edizioni speciali di Whole Lotta Love possiamo sentirlo gridare durante la performance del bridge, quel delirio orgasmico di Robert Plant che somigliava tantissimo agli spunti psichedelici dei Pink Floyd.
Racconto queste cose a Giorgio e cerco di semplificare: “Giorgi’, pensa che il gruppo era talmente sfinito e snervato dal tour che era arrivato a odiare il nuovo disco, perché si erano trovati costretti a scrivere i brani nelle stanze d’albergo anziché riposare”.
Fa un po’ strano, però, ascoltare bombe atomiche come Heartbreaker – una scusa per parlare a Giorgio della bellezza divina del basso distorto – Lemon Song, Ramble On, Moby Dick e immaginare che siano nate da quattro ragazzi sotto pressione. I tributi a Willie Dixon e Howlin’ Wolf costarono alla band una serie di accuse di plagio, ma ciò che oggi possiamo ascoltare è uno dei monumenti più rappresentativi della storia del rock.
Me ne accorgo dallo stupore negli occhi di Giorgio, che traccia dopo traccia scopre qualcosa che sono certo gli rimarrà impresso per gli altri 600 anni in cui calcherà questo pianeta inquinato. L’abilità bassistica di John Paul Jones è tutta nel riff di Ramble On mentre Jimmy Page sa far parlare la sua chitarra in Heartbreaker. Non è da meno Robert Plant, che ai brani dei Led Zeppelin sapeva alzare il tiro con il suo timbro raschiato e la sua baldanza glamour che lo rendeva un felino in grado di divorare il microfono e un intrattenitore audace sul palco.
Giorgio mi ascolta mentre gli faccio notare quanto decolla il groove di Ramble On: “Ramble on – tum tum tum – and now’s the time, the time is now to sing my song – tum tum tum” e quanto sia espressivo lo strumentale di Moby Dick, capace di sfondare ogni limite anche senza un cantato, specialmente quando Bonzo ricorre alle dita per disegnare il suo assolo: “Ecco, Giorgi’. Questo è un batterista creativo che ha insegnato tanto al mondo. Oggi ci sono piccoli dodicenni che vengono filmati mentre suonano “velocissimo” con tanti tamburi e vengono considerati fenomeni. Quelli non sono fenomeni, non sono geni, non inventano niente. Fanno solo vedere che sono bravi”. Lui non afferra, allora gliela spiego in maniera più semplice: “Secondo te è più bravo un calciatore che sa fare 100 palleggi o uno che tira in porta e fa gol?”. Ovviamente il marmocchio sceglie la seconda. “Ecco! – gli dico – I piccoli dodicenni che suonano “velocissimo” palleggiano 100 volte, John Bonham invece faceva gol. Faceva tanti gol, perché pensava a giocare bene e un po’ meno a fare il bravo”.
Ora ha capito, e mentre Bonzo continua a straziare le pelli, il piccolo Giorgio usa le sue piccole dita come fossero bacchette e picchia con entusiasmo sulla scrivania. Quando deve toccare il suo crash immaginario colpisce la mia lampada e la fa cadere a terra. Gli dico: “Ecco, John Bonham faceva proprio questo”, in tutti i dischi, specialmente nel secondo album dei Led Zeppelin.