E.T. L’Extra-terrestre (1982) è il compimento dell’ideale di Steven Spielberg, per il quale il cinema deve essere un “apparato concepito per il sogno e per lo stupore, per la fiaba e per la meraviglia” (Franco La Polla). Il film è costruito come una favola, a partire dalle prime inquadrature in cui, attraverso il fitto fogliame del bosco, s’intravede come fossimo in un cartone animato della Disney d’una volta (quella di Bambi, per intendersi) un’astronave aliena costretta ad abbandonare sulla Terra un membro dell’equipaggio perché braccato dagli umani adulti. I quali per tutto il film, come gli orchi delle fiabe, non hanno praticamente volto, sono esseri anonimi che minacciano tutto quello che c’è di più puro al mondo.
E la purezza in questo film è incarnata dai ragazzini, naturalmente, gli unici in grado di mostrarci il baratro della nostra arroganza e la nostra paura patologica dell’altro, che ha le fattezze innocenti di un extra-terrestre dai grandi occhi e un buffo corpo panciuto, che unisce l’intelligenza di un genio a una dolcissima emotività infantile. Ed è con un bambino, Eliot (Henry Thomas), che E.T., così viene ribattezzato dai suoi nuovi amici, sviluppa una simbiosi che ha qualcosa di magico: se E.T. beve birra è Eliot a ubriacarsi; e se l’extraterrestre s’ammala al punto di sentirsi morire, a Eliot accade lo stesso.
E.T. L’Extra-terrestre resta il più grande successo di Steven Spielberg, addirittura – rivalutando l’incasso al tasso dell’inflazione – uno dei dieci migliori risultati al botteghino della storia del cinema. Il segreto di questo film sta nella sua capacità di dar corpo e voce alle fantasie e ai desideri più ingenui dello spettatore. Tutto è filtrato attraverso il punto di vista dei due protagonisti: che sono, appunto, un bambino e un essere con la sensibilità di un bambino. Così il pubblico guarda la realtà coi loro occhi e si immedesima con la loro prospettiva, quella di uno sguardo “altro”, che osserva il mondo dal basso verso alto (è la ragione per cui E.T. ha la stessa statura dei bambini, così da relazionarsi agli adulti esattamente come loro).
E.T. L’Extra-terrestre costituisce anche il punto estremo della prima fase della carriera di Spielberg, in cui più compiutamente si esprime la sua propensione al racconto fiabesco e infantile, che non è ancora stata messa in crisi dall’irruzione della Realtà e della Storia e perciò si manifesta in una forma pura, con la leggerezza bidimensionale del cartoon. Di lì a poco nell’evolversi della sua carriera le cose cambieranno, a partire da Il Colore Viola (1985) e ancora di più L’Impero Del Sole (1987), in cui l’immane tragedia della guerra obbliga un preadolescente a un doloroso percorso di maturazione.
Non si può restare bambini per sempre, insomma. La vita obbliga a crescere e a smettere di cullarsi nel sogno di eterna irresponsabilità di Peter Pan (è il tema di uno dei film meno riusciti ma più personali di Spielberg, Hook, 1991). E anche se alla superficie il mondo assume le fattezze di un parco di divertimenti, basta poco per rendersi conto che sotto quella patina festosa si agitano enormi pericoli che mettono a rischio la nostra stessa sopravvivenza (stiamo parlando, ovviamente, di Jurassic Park, 1993). E quando il sogno a occhi aperti viene bruscamente interrotto, il risveglio avviene nell’atroce realtà in bianco e nero di Schindler’s List (1993), nel quale si ripercorrono le tappe d’una storia in cadenze di tragedia, un incubo nel quale siamo stati gettati dagli adulti, ma dal quale solo l’intervento di altri adulti può ridestarci.
E.T. L’Extra-terrestre invece si muove ancora al riparo del suo universo fantastico, in cui il mondo può essere salvato da un gruppo di ragazzini sulle bici volanti e da un essere dotato di poteri messianici, un Altro che invece di aggredirci come nei vecchi film di fantascienza paranoici degli anni Cinquanta è giunto qui per ricordarci il senso del mistero di cui si nutrono la vita e la bellezza. Non è un caso però che l’extra-terrestre voglia più di tutto ritornare al suo pianeta: per nostalgia di casa, certo, ma anche perché dispera nella capacità degli adulti di ritrovare dentro di sé quello spirito infantile senza il quale il mondo è spacciato.