A Venezia 80 “Io Capitano”: raccontare l’epopea dei migranti senza cedere al ricatto emotivo

Matteo Garrone racconta l’odissea di due sedicenni senegalesi che sognano l’Europa, schivando luoghi comuni e pornografia del dolore. Puntando ai fatti, senza presunzioni autoriali, con uno stile che mescola realismo, fiaba e astrazione visiva

Io Capitano

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Nell’accingermi a vedere Io Capitano, il nuovo film di Matteo Garrone ora in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia e contemporaneamente uscito in sala il 7 settembre, non ho potuto fare a meno di tenere presente le riflessioni contenute in un bel libro del saggista e romanziere Walter Siti, Contro l’Impegno, nel quale l’autore mette in guardia dai rischi della retorica e del romanzesco contenuti nelle storie che vogliono esprimere un punto di vista netto sul bene e il politicamente corretto, individuando nella figura del migrante il personaggio esemplare, massimamente esposto a queste semplificazioni tranquillizzanti.

Una tipologia di vittima particolarmente adatta al romanzesco – scrive Siti – pare essere quella del migrante: la drammaticità del viaggio, la forza tragica degli avvenimenti (chi non si sente straziare se una madre perde il proprio figlioletto tra i flutti?), l’esistenza di cattivi stereotipati come il trafficante, il torturatore, il politico cinico, tutto congiura a far salire l’impatto emotivo e la tensione retorica dell’avventura – senza dimenticare che, negli squarci di nostalgia per la patria abbandonata, può prendere posto una vecchia conoscenza della letteratura di intrattenimento, cioè l’esotismo”.

In buona parte queste sono le situazioni in cui si trovano immersi i due giovanissimi protagonisti di Io Capitano, Seydou (Seydou Sarr, bravissimo) e Moussa (Moustapha Fall) due sedicenni senegalesi intraprendono il viaggio verso l’eldorado europeo, dove sognano di diventare musicisti di successo che “firmano gli autografi ai bianchi”. Eppure, su questo materiale di partenza Garrone compie un articolato lavoro contenutistico e formale, che punta a sottrarre la vicenda al luogo comune, alla ridondanza e al ricatto della pur legittima emozione, per ritrovarvi al fondo una storia umana, plasmata dall’autenticità dei fatti, ricondotti alla forza di uno stile che non si fa incasellare nella prevedibilità della pornografia del dolore.

Il punto di partenza è stato perciò, necessariamente, quello delle testimonianze dei veri migranti, lungamente ascoltati per comporre una sceneggiatura firmata da Garrone insieme a Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri. Poi c’è, quasi naturalmente, il ricorso ad alcuni espedienti che rimandano alla concretezza della matrice neorealista: filmare nei veri luoghi della vicenda, tra Senegal, Mali e Libia, con attori in gran parte non professionisti che parlano la loro lingua wolof (il film quindi è sottotitolato).

La storia scarta dai presupposti più scontati, disegnando due protagonisti che vivono un’esistenza accettabile e non di estrema indigenza – “Ho immaginato la Napoli del dopoguerra, una povertà molto dignitosa e una grande vitalità”, ha dichiarato Garrone –, evitando di schiacciare i protagonisti dentro una dimensione unilateralmente vittimistica, senza ridurli a simboli ripetitivi di un assunto pregiudiziale, invece descritti quali esseri umani con un corposo, verosimile retroterra biografico.

Per questo il film si distende in un lungo preambolo che racconta il mondo di Seydou e Moussa, i colori volutamente accesi del Senegal – anche per costruire un contrasto visivo e morale con la durezza quasi monocromatica delle sequenze relative all’odissea del viaggio –, la potenza e la legittimità delle loro aspirazioni, condite da un’ingenuità dello sguardo che è il frutto di una conoscenza solo presunta del mondo che incontreranno – “Quello che vedete in tv non è la realtà”, è il rabbioso ammonimento che fa loro un adulto che la traversata l’ha compiuta.

A tenere insieme questi elementi c’è la cifra di Garrone, che in Io Capitano, pur senza apparentemente operare scelte fortemente autoriali, imprime il segno di uno stile proprio, che si sforza di cercare un non facile equilibrio tra l’assunto materialista dagli snodi inevitabili (per cui ci sono i trafficanti di esseri umani, le prigioni, le torture), la potenza trasfigurante del fiabesco (certe visioni che hanno allo stesso tempo il sapore rigenerante, “poetico” della magia quanto la tragicità dell’allucinazione e del miraggio) e, infine, l’astrazione di uno sguardo integralmente cinematografico che cerca nella forma la verità dei fatti (certe inquadrature dall’alto in campo lunghissimo in cui una jeep immersa nella vastità angosciosa del deserto e una nave immersa nella vastità angosciosa del mare rimandano esattamente alla stessa figura).

Il risultato è un film dalla dizione sfuggente, forse persino respingente per lo spettatore, il quale fatica a ritrovare, se non nell’immedesimazione con Seydou, un riconoscibile appiglio emotivo cui affidarsi per intraprendere il suo viaggio della visione. Ed è probabilmente questo il fattore più interessante di Io Capitano nel quale, al netto di alcuni riconoscibili elementi del suo cinema che ritornano – la propensione al fiabesco, la possibilità di rileggere l’epopea in una chiave di avventura di Pinocchio, tra balocchi (presunti) e durezza della realtà – conferma anche l’elusività dello sguardo di Garrone, che si plasma sulla misura delle vicende che narra e dei luoghi che mostra, senza presentare marche stilistiche troppo riconoscibili.

Infatti il film possiede una struttura classica, senza movimenti di macchina vertiginosi, umile nella sua minuta e calibrata attenzione ai personaggi, pedinati in un primo piano costante ma non invasivo e mai spudorato – dimostrato dal modo in cui viene trattata la violenza, sobriamente restituita in una dialettica tra campo e fuori campo, che allude senza mai indugiare sulla sofferenza sbattuta in faccia.

È anche un road movie Io Capitano, nel quale il viaggio segna un percorso di crescita ed emancipazione, sebbene lungo traiettorie molto diverse da quelle presunte da Seydou e Moussa. C’è un momento, un lampeggiante, brevissimo primo piano privo di qualunque enfasi, in cui diventa indiscutibilmente evidente la presa di consapevolezza di Seydou, i cui occhi buoni acquisiscono all’improvviso l’asprezza, auspicabile ma dolorosa, dell’età adulta. Ed è questa la misura del cinema adulto di Garrone, che opera non sulla vistosità ma sul dettaglio, magari cerebrale nelle sue prese di posizione – non mostrare l’arrivo in Europa, non indugiare sulla violenza –, ma onesto nell’approccio non ideologico che ha come sua bussola i fatti (quella bussola che Seydou guarda ossessivamente puntando a nord), disposto a rinunciare anche alla preziosità dello stile memorabile.

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