Starcatcher dei Greta Van Fleet, un album per fare pace con la band (recensione)

Blues, prog, hard rock e deserto. Ecco Starcatcher, il nuovo disco dei contestatissimi Greta Van Fleet

starcatcher dei greta van fleet

Ph: Sven Mandel/Wikimedia


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Che c’è di male in Starcatcher dei Greta Van Fleet? Niente. Che c’è di sbagliato nei Greta Van Fleet? Assolutamente niente. Lo sa bene il produttore Dave Cobb, che ha saputo riportare alla luce le ispirazioni desertiche dei fratelli Kiszka con quel tocco di rock anni ’70 dove “rock” non tradisce l’impostazione delle corna alzate e dei tamarri sottoni. Starcatcher funziona allo stesso modo di The Battles At The Garden’s Gate e Anthem Of The Peaceful Army. Funzionano i Greta Van Fleet, che in tutti i modi hanno tentato – ma l’hanno fatto davvero o ce la stiamo cantando da anni? – di scrollarsi di dosso l’hater accusatore, quello che “ma imitano i Led Zeppelin ahah”.

Sì, la voce di Josh Kiszka ci rimanda inevitabilmente a Robert Plant, e se madre natura l’ha fatto così possiamo beatamente sentire l’appellativo “stacce”. In questo album i Greta Van Fleet cercano la trascendenza a partire da Meeting The Master, un ricorso quasi ossessivo all’elevazione spirituale che era proprio anche di Jim Morrison, se vogliamo ancora scomodare i grandi del passato. L’arte è anche ispirazione, e se l’ispirazione cede il posto a piccole emulazioni ben fatte, ben venga.

Starcatcher (LP)
  • cd e vinili, musica, distribuito da universal music italia

Chi non riesce, deve provarci: i Greta Van Fleet somigliano ancora ai Led Zeppelin, specialmente quelli da Houses Of The Holy in poi. Non è sbagliato, è solo un fatto. Il disco si apre con Fate Of The Faithful, dove colpisce l’audace terzinato del ritornello ripetuto ora dalla voce di Josh e ora dalla chitarra di Jacob. Possiamo dirlo? Fate Of The Faitfhul ha qualcosa di prog, eccome. Il viaggio nel deserto – che non può ancora evolversi nello stoner rock – si allunga con Waited All Your Life e The Falling Sky. In quest’ultimo caso abbiamo il riffone hard rock dei tempi di Lover Leaver, con quel corretto apporto blues e quei continui ricorsi con i quali la band sembra finalmente mettersi nella posizione di prendere per il cu*o chi li ha sempre considerati un progetto revival. Sì, con The Faling Sky il revival c’è tutto, ma è anche una sfida a fare altrettanto.

Sacred The Thread è puramente blues con chitarre protagoniste e delay esasperati. I vocalizzi di Josh sanno molto di In The Light e tutto ha molto di psichedelico, almeno fino a Runway Blues. Dal titolo tanto classico quanto evocativo, Runway Blues è il pezzo da pogo intelligente. Trascinante The Indigo Streak, ma stancante dopo le prime decine di secondi per via degli eccessi di Josh, anticipa Frozen Light che merita per il bridge allucinato che ritroveremo in The Archer con il giusto apporto acustico e i delay.

Meeting The Master è forse il brano che riassume l’intero disco e che potrebbe addirittura chiuderlo, non fosse per l’inutile Farewell For Now che certamente è una marchetta autocelebrativa per il pubblico. Nel complesso, Starcatcher dei Greta Van Fleet è finalmente il disco con cui si può parlare di album dei Greta Van Fleet. In che senso?

La partenza con Anthem Of The Peaceful Army è stata ottima ma azzardata ed è costata la reputazione – soggettiva, ovviamente – alla band. Un tempo i loro brani potevano creare confusione – soggettiva, ovviamente – per puristi avvezzi all’ascolto di pancia e al commento al fiele. Oggi siamo di fronte all’evoluzione naturale dopo The Battle At The Garden’s Gate: chi ascolta i Greta Van Fleet si accorge che sono i Greta Van Fleet, finalmente, anche se la battutina scappa sempre. Non è il disco dell’anno né il capolavoro. I quattro del Michigan devono ancora sfornare il capolavoro definitivo. Sono ancora giovani, diamo loro del tempo.