Rapito, il cinema non conciliato di Marco Bellocchio torna a riflettere su religione e potere

Passato in concorso a Cannes, il film ricostruisce il celebre caso di Edgardo Mortara, bambino ebreo sottratto nel 1858 alla sua famiglia ed educato da cattolico sotto la custodia di papa Pio IX

Rapito

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Passato in questi giorni in concorso al festival del cinema di Cannes, Rapito di Marchio Bellocchio è stato salutato da alcune recensioni entusiastiche, come quella, ampliando lo sguardo oltre i lidi patri, di Peter Bradshaw sul Guardian, che l’ha definito un “melodramma con la veemenza appassionata di Hugo o Dickens”, assegnandogli il voto massimo, 5 stelle su 5.

Al di là degli apprezzamenti, ciò che più colpisce in Bellocchio, citando ancora una volta Paolo Sorrentino che lo ha definito “il più importante e giovane regista che abbiamo in Italia”, è da un lato la curiosità che lo fa restare sintonizzato sulla contemporaneità, e dall’altro la persistenza di uno spirito non conciliato, che invece di assestarsi sull’assennatezza placata che ci si attenderebbe da un ottantenne, mantiene della giovinezza l’inquietudine interrogativa di chi, pur acquietati i più astratti furori, non intende mettere completamente giudizio.

Non sarà allora un caso che Rapito possa collegarsi idealmente a uno delle sue prime e più radicali opere, quel Nel Nome del Padre (1971), che nel raccontare la ribellione di un cadetto in un collegio gestito da religiosi, mette in scena una istituzione totale che opera un controllo ideologico, fisico e psicologico sui singoli. È simile la premessa di Rapito, scritto da Marco Bellocchio e Susanna Nicchiarelli in collaborazione con Edoardo Albinati e Daniela Ceselli – a partire dal volume di Daniele Scalise Il Caso Mortara –, che ricostruisce una celebre vicenda di metà Ottocento che aveva affascinato anche Steven Spielberg, il quale accarezzò l’idea di trarne un film. Quella cioè di Edgardo Mortara, bambino ebreo che nel 1858, dopo esser stato segretamente battezzato a sei mesi dalla nutrice cattolica che lo pensava in punto di morte, viene sottratto alla famiglia bolognese e trasferito a Roma, educato da cattolico sotto la custodia di papa Pio IX.

Il film inizialmente avrebbe dovuto intitolarsi Non Possumus, che è quanto sentenzia Pio IX (Paolo Pierobon) reagendo sdegnosamente alle critiche e all’enorme risonanza internazionale che scatenò il caso. “Da quando si devono gradire le decisioni del Papa? Io resto fermo, è il mondo che si muove verso il precipizio”. Naturalmente, come ha sottolineato Bellocchio, «l’intenzione non è mai stata quella di fare un film contro la Chiesa, contro il Papa o contro la religione. Non c’è mai stato alcun intento politico e ideologico».

E però Rapito funziona come uno straordinario dispositivo analitico sul funzionamento di un’istituzione come la Chiesa cattolica, che riconosce solo le proprie regole interne, comportandosi di conseguenza. Il che, per Edgardo (da bambino Enea Sala, da adulto Leonardo Maltese), significa essere irreggimentato all’interno di un contesto che gli impone un cambiamento integrale, parlando un’altra lingua – dalle preghiere in ebraico a quelle in latino – e mutando abitudini e affetti. È significativa in tal senso la ripetizione del gioco del nascondino: la prima volta Edgardo si nasconde sotto la sottana della madre (Barbara Ronchi), la seconda sotto quella di un compiaciuto Pio IX.

Ciò non vuol dire però che Rapito focalizzi il suo sguardo esclusivamente sulla Chiesa romana. In due diversi momenti, Bellocchio monta in parallelo e sovrappone prima una funzione religiosa cattolica con la preghiera in ebraico condotta in casa Mortara dal padre (Fausto Russo Alesi); poi incrocia la messa per la cresima di Edgardo con il processo contro padre Feletti (Fabrizio Gifuni), l’ex inquisitore del Santo Uffizio responsabile della sottrazione del bambino. La correlazione visiva stabilisce quindi l’intima connessione tra istituzioni diverse, le quali però condividono la medesima logica attraverso cui esprimono e gestiscono un potere che va sempre a scapito degli individui.

In Rapito inoltre, così come in diversi tra i più recenti film di Bellocchio, la vicenda dei singoli si colloca all’interno del contesto della grande Storia, cioè l’epopea risorgimentale dagli anni Cinquanta ai Settanta dell’Ottocento, fino alla breccia di Porta Pia e al definitivo tramonto del potere temporale dello Stato pontificio, in una sequenza di avvenimenti che aiutano a collocare la rigidità a tratti feroce di Pio IX – la minaccia di “ricacciare nel buco” i rappresentanti dell’ebraismo romano che cercano di dialogare con lui –, in un contesto più ampio, spiegando anche le vere e proprie allucinazioni persecutorie del pontefice.

Allucinazioni condivise dal piccolo Edgardo, il quale da ebreo è sconvolto e “rapito” (nell’altro senso della parola, cui il titolo del film forse allude) dall’estasi tragica del Cristo sanguinante in croce. Al punto che sogna di alleviarne la sofferenza, in una scena che, nel suo immaginare una diversa versione degli eventi, rammenta il destino alternativo dell’Aldo Moro di Buongiorno, Notte.

La domanda centrale di Rapito riguarda Edgardo. La storia ci dice che, una volta adulto, divenne sacerdote, e lo rimase sino alla fine dei suoi giorni, nel 1940. Si trattò dunque di un’autentica conversione? «Per gli ebrei naturalmente no – aggiunge Bellocchio, intervistato –  A sette anni Edgardo cercava solo di sopravvivere e per farlo doveva accettare certe regole. Non era profondamente domato però, c’era qualcosa in rivolta nel profondo del suo animo. Ma non possiamo ignorare il mistero: quando fu libero di fare le proprie scelte, decise di restare fedele al Papa sostenendo che il suo vero padre era Pio IX. Divenne sacerdote e missionario dedicando la propria vita alla conversione degli altri, ma pagò a caro prezzo la sua, con prolungate malattie».

La raffinata tessitura visiva e drammaturgica di Rapito scava senza risolverlo dentro questo enigma, facendo affiorare nell’Edgardo adulto oscillazioni temperamentali, incontrollati trasalimenti da cui traspaiono l’ambiguità e gli interrogativi di un essere umano posto di fronte a regole non richieste che finiscono, probabilmente, per mortificarlo e limitarlo nell’espressione del suo vero sé, consegnandolo per sempre a una contraddizione vissuta sulla propria carne – si vedano il tesissimo dialogo col fratello, ateo e bersagliere, che partecipa alla conquista di Roma, e gli incontri coi genitori. Tutti momenti che lasciano lo spettatore di fronte alla frustrazione di una risposta mancata, ma anche davanti alla meraviglia di un cinema che sollecita tanto l’intelligenza quanto l’istintivo bisogno di adesione emotiva alla storia narrata.

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