Il Traditore, Bellocchio e Favino raccontano la maschera tragica di Tommaso Buscetta

Vent’anni di mafia e storia d’Italia visti attraverso il “boss dei due mondi”. Una vicenda di famiglie e tradimenti, di padri e figli. Magnifico Favino in un cast di prim’ordine. Stasera su RaiTre alle 21.20

Il Traditore

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Aveva ragione Paolo Sorrentino quando, nel discorso con cui introdusse il conferimento a Marco Bellocchio della Palma d’oro onoraria a Cannes nel 2021, lo definì “il più importante e giovane regista che abbiamo in Italia”. Giovane, e inesauribilmente curioso, ha dimostrato di esserlo Bellocchio più che mai in questi ultimissimi anni, ormai ottuagenario, in cui ha saputo uscire dai confini del film d’autore tipico col quale si è misurato per decenni, sperimentando forme e generi che non si pensava potessero essergli congeniali.

Esterno Notte (2022) è un ibrido, con una struttura in sei capitoli, e può indifferentemente essere visto come un film lungo o una serie tv, sebbene elusiva e lontana dai canonici meccanismi dello storytelling. Indefinibile, modernissimo è Marx Può Aspettare (2021), uno degli esiti più alti in assoluto di Bellocchio, documentario autobiografico in cui il tema centrale dell’intero suo cinema, la famiglia, esplode letteralmente, mostrando a partire da una franchezza necessaria e disarmante la dolorosa storia personale alla base delle sue ossessioni d’autore.

Originale è anche Il Traditore (2019), sei David di Donatello vinti e un lusinghiero risultato al botteghino (oltre cinque milioni, cosa inusuale per Bellocchio), incentrato sulla figura del pentito di mafia Tommaso Buscetta. Un film che da un lato costituisce, coerentemente con altre opere del regista, uno scandaglio dentro i gangli della storia d’Italia, dato che la vicenda del criminale è seguita lungo un arco temporale ventennale che comprende la guerra di mafia dei primi anni Ottanta tra Stefano Bontate e i corleonesi Totò Riina; il maxiprocesso di Palermo del 1986, di cui Buscetta fu testimone chiave; il processo Andreotti negli anni Novanta.

Dall’altro lato Il Traditore si misura integralmente col dispositivo di genere, dando vita a un singolare “mafia movie d’autore”, che tiene conto anche del divismo attoriale, vista la presenza nella parte del protagonista di un iconico Pierfrancesco Favino, unico non siciliano del cast. Nel confronto col genere, però, Bellocchio si smarca dagli effettismi compiaciuti del gomorrismo e va dritto alla fonte, cioè al Padrino di Francis Ford Coppola. I due film cominciano allo stesso modo, partendo da una cerimonia cui partecipano tanti boss di spicco. Uno di quei tipici momenti in cui si coglie la natura endogamica dell’organizzazione, tutta chiusa dentro rapporti tra individui indissolubilmente stretti dentro una famiglia, come dimostra la foto di rito in cui Pippo Calò (Fabrizio Ferracane) poggia paternamente le mani, gesto apparentemente affettuoso, sulle spalle di quello che considera il suo figlioccio, Buscetta.

Bellocchio, che sulle prime considerava piuttosto lontano dalle sue corde Il Traditore, trova in questo elemento la prospettiva attraverso cui ricollegare una vicenda mafiosa al tema della famiglia. Un istituto di cui, grazie all’ipocrisia strutturale e l’abitudine alla maschera menzognera dei mafiosi, è possibile mostrare la violenza intrinseca. Già il fulminante esordio di Bellocchio del 1965, I Pugni in Tasca, scandalizzò per l’uso della violenza, addirittura l’assassinio, all’interno di un nucleo familiare borghese. Ma se quel caso poteva essere letto come un’eccezione figlia di una deriva patologica, quando si parla di Cosa Nostra invece la violenza, fatta la tara alle dichiarazioni di facciata degli uomini d’onore, costituisce il tratto caratterizzante della mentalità mafiosa, in cui chiunque risulta sacrificabile sull’altare del potere e del profitto.

Ed è esattamente ciò che accade a Buscetta al quale, una volta tornato in Sudamerica dalla sua nuova compagna brasiliana Cristina (Maria Fernanda Cândido), proprio Calò tortura e uccide due figli, all’interno del conflitto tra le fazioni mafiose vinto da Riina. Bellocchio aggiunge alla storia vera un racconto esemplare che Buscetta riporta al giudice Falcone una volta divenuto collaboratore di giustizia: la cupola gli commissiona l’assassinio di un tale, ma quando questi si fa scudo del figlioletto, il convinto “uomo d’onore” Buscetta non riesce a ucciderlo. Solo quando quel figlio sarà divenuto adulto e avrà formato una sua famiglia, lasciando solo il padre, quel viscerale legame protettivo sarà reciso, lasciando al criminale la possibilità di intervenire.

Questo racconto apertamente simbolico sintetizza la prospettiva de Il traditore: che è una storia tragica di padri e figli, reali e putativi, e di un’organizzazione che si autorappresenta eufemisticamente come una famiglia. In cui però legami di sangue e onore restano solo parole, disattese dai fatti. Per questo un altro tratto essenziale de Il Traditore è nella dimensione recitata e ambigua delle parole, del linguaggio usato come una copertura e una maschera, come dimostrano i serrati confronti processuali tra Buscetta e i mafiosi. Quello con Calò, dal fortissimo pathos per il rapporto che lega nonostante tutto i due uomini; e quello con Riina (Nicola Calì), all’insegna d’una estraneità anche caratteriale – perché Riina è un uomo solo, ossessionato dal potere, che resta in disparte persino quando gli altri mafiosi brindano oscenamente alla morte di Falcone.

Nell’oscillazione tra i due poli estremi della verità dei fatti e della maschera retorica indossata dagli uomini di Cosa Nostra, della fedeltà sbandierata e del tradimento quale sostanza dei comportamenti, si pone Buscetta, che trova in Favino un interprete eccezionale, che esprime una mimesi critica verso il personaggio, di cui restituisce la parlata e la postura che rivelano anche quanto non vorrebbe ammettere (la sequenza della sartoria è chiarissima nel mostrare, dietro le ambizioni di eleganza cui aspira il criminale, le origini contadine di un uomo impacciato con abiti, e abitudini, che non gli appartengono). Favino non fa nulla quindi per rendere gradevole Buscetta, sebbene non gli neghi un’umanità ed emozioni, però sempre difficili da decrittare, impastate dentro una ridda di dissimulazioni e contraddizioni, costitutive del personaggio e dell’identità mafiosa in quanto tale.

Così facendo, Il Traditore elude ogni possibile immedesimazione col protagonista, restituito attraverso un distacco rigoroso, testimoniato da un racconto che si limita alla dimensione fattuale, senza offrire il destro a letture psicologistiche di Buscetta. Che non è né un eroe né, come vorrebbe, il mafioso buono “di una volta” in mezzo ai mafiosi disonorati di oggi – il finale in tal senso è inequivocabile. Invece è un personaggio autenticamente tragico, proprio per questa oscillazione perenne tra simulazione – è vero il suo tentativo di suicidio? – e sincerità.

Tragico lo è Buscetta anche nella sua diversità caratteriale: un tratto emerso tante volte nei suoi libri-intervista, con un gusto per la bella vita lontano dal moralismo mafioso di facciata, persino con più di una famiglia, mosso quindi nel suo “tradimento” da ragioni più complesse di quelle degli altri pentiti. Come Salvatore Contorno (uno splendido Luigi Lo Cascio), collaboratore di giustizia che resta interamente ostaggio della logica della vendetta mafiosa. Per questo è incapace di uscire dal dialetto stretto, mentre Buscetta mastica un articolato pastiche di siciliano, portoghese, italiano, spia dello sfaccettato personaggio che incarna e del suo desiderio di rimarcare la distanza dagli altri criminali.

Le categorie del tradimento e della famiglia, indissolubilmente connesse, ricapitolano l’intera identità mafiosa e il significato del film, trovando nella parabola di Tommaso Buscetta una sua versione paradigmatica. Un uomo visceralmente legato a quel modello anche culturale cui gli è impossibile negare l’appartenenza. E infatti sempre sosterrà di non aver rinnegato l’organizzazione con la sua deposizione, ma di essere restato fedele agli ideali disattesi dagli altri. Così denuncia la sua dimensione afflitta di figlio tradito da quelli che è obbligato implicitamente a riconoscere quali suoi padri. E allo stesso tempo è un padre traditore dei suoi figli, che abbandona forse con rimorso, ma senza ripensamenti.

Il Traditore ruota intorno a questioni e nodi inestricabili, che non consentono al pubblico di riemergere dalla visione con certezze e parole d’ordine in più, sul personaggio e sull’organizzazione mafiosa. Allo stesso tempo però lo spettatore, grazie al serrato confronto con l’enigma Buscetta e le categorie del tradimento, della maschera e della famiglia, sente di aver capito della mafia molto più da questo film che da tanto cinema civile nobile e assertivo.

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