Quando, le (auto)analisi politiche e sentimentali di Walter Veltroni

Partendo da un suo romanzo, l’ex politico cerca di fare un bilancio storico ed esistenziale di un’epoca. Ci sono anche prove di melodramma. Con esiti insignificanti

Quando di Veltroni

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Tratto dall’opera letteraria Quando di Walter Veltroni”, recitano altisonanti manifesto e titoli di testa del film che l’ex politico ha ricavato dal suo romanzo omonimo, sceneggiato insieme a Simone Lenzi e Doriana Leondeff. Seconda prova di finzione seguita a C’è Tempo e dopo un blocco di documentari partiti da quel Quando c’era Berlinguer che è il prevedibile santino richiamato anche da Quando, in cui un tale Giovanni (Neri Marcorè), imberbe militante dei bei tempi del Pci, si risveglia nel 2015 dopo 31 anni di coma, causato dall’asta di una bandiera che lo aveva tramortito durante i funerali del segretario nel 1984.

Già al risveglio, ancora confuso, sempre assistito amorevolmente dalla suora Giulia (Valeria Solarino), Giovanni intona con voce impastata e malcerta l’Internazionale. Dopo, ovviamente, sarà costretto a misurare differenze e lontananza di questo tempo da quello che sentiva suo, più saldo negli orizzonti ideologici e anche sentimentali, con l’immagine che gli riappare nei sogni della fidanzata di allora Flavia, che spera di ritrovare.

Chissà che cosa simbolicamente vorrà dire questa amnesia trentennale. Forse è il sintomo dello smarrimento politico di un partito che ha faticato a fare i conti con la sua tradizione e con lo iato tra caduta del muro di Berlino e quel che ne è seguito, una mutazione profonda che le nuove incarnazioni della sinistra non hanno saputo affrontare adeguatamente. O magari è proprio il non aver fatto parte di quei decenni a consentire a Giovanni (e vicariamente a Veltroni) una lettura di tutta un’epoca atteggiata al facile senno di poi. Di qui vengono inserti didascalici, come il protagonista che, vedendo per la prima volta le immagini del lancio di monetine all’Hotel Raphaël ai danni di Bettino Craxi nell’arroventata stagione di Mani Pulite commenta: “No, però questo no”. Oppure quando precisa che della caduta dell’Unione Sovietica non gli dispiace molto, dato che il Pci, dice, “era un’altra cosa, eravamo già per lo strappo”.

Il comunismo, aggiunge, era una condivisione di valori, anzi di “sentimenti”, in cui “l’ideologia era sbagliata, ma gli ideali erano giusti”. Insomma, tutto un percorso di (auto)assoluzioni politiche, ricordando però sempre il calore dell’afflato emozionale del senso di appartenenza, che può affiorare, innocuo, in una Bella ciao cantata in trattoria o in un pellegrinaggio a Botteghe Oscure e alla Libreria Rinascita che non esistono più (“Ci ho comprato i Quaderni dal carcere: tosto ma necessario”).

Le smemoratezze e i giudizi politicamente corretti costituiscono la parte più prevedibile di un falso bilancio accomodante come Quando, semplicistico e sbrigativo come il bignami storico che Giovanni chiede a uno smanettone della rete per farsi un’idea dei tempi nuovi. E quello gli mostra una sequenza di fotografie che saltabeccano dalla caduta del muro di Berlino alla strage di Capaci, dalla morte di Carlo Giuliani a Genova all’11 settembre.

La parte più interessante sarebbe potenzialmente quella di finzione, in cui l’autore cerca di inseguire i sentimenti imbastendo una trama melodrammatica. Che è però quella in cui emergono tragicamente i limiti narrativi ed espressivi del Veltroni regista, dal picco dell’incontro con la madre ormai affetta da malattia degenerativa che forse lo riconosce forse no, al triangolo sentimentale mélo con Flavia (Olivia Corsini), che nel frattempo s’è sposata col migliore amico Tommaso (Gianmarco Tognazzi).

Quel che manca alla regia è proprio la capacità di calarsi nelle regole del genere, che ha bisogno di passioni e corpi, e delle infrazioni che il desiderio segna rispetto alle regole. Ossia quanto di più lontano possa esistere dallo stile sempre ovattato, sorridente e ottimista di Veltroni, che aggira costantemente le asperità, quelle della Storia con la s maiuscola e quelle delle vite individuali.

Non aiuta anche, al di là di lentezze di montaggio e interpretazioni esangui, la scelta, secondo un difetto tipico del cinema italiano qui persino esasperato, di location improbabili, case sul fiume e irrealistiche magioni da Architectural Digest, nelle quali evidentemente secondo l’autore vivrebbe il ceto medio, nelle quali si consumano in sfibranti controluce amplessi (castissimi), agnizioni, incontri. Pure il sentimento che affiora in Giovanni per la bella suora non osa mai in alcun modo spaginare la confezione pettinata e antiquata del film, mai un sussulto visivo, un comportamento men che ineccepibile, un graffio che sappia di realtà. Il melodramma è geneticamente agli antipodi di Veltroni.

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