Tramite Amicizia, il mondo del lavoro (si fa per dire) secondo Alessandro Siani

Sesta regia del comico napoletano. Che sulla carta abbandona la fiaba per una comicità graffiante di marca realista. Ma non c’è traccia, né di comicità né di realismo. Sprecato Max Tortora

Tramite Amicizia

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Basta con le favole, ora parlo di lavoro“: a sentire Alessandro Siani Tramite Amicizia segnerebbe una netta discontinuità con le opere precedenti. E anch’io, recensendo altri suoi film, avevo sottolineato come l’aspetto più debole del suo cinema stesse proprio nell’ostinato chiudersi dentro una confezione convenzionale fatta di storielle aggraziate, fiabesche e romantiche, puerili e accomodanti. Con l’aggravante di non offrire mai allo spettatore un aggancio verosimile al proprio tempo, che gli consentisse, almeno vagamente, di riconoscersi e trovarsi raccontato (secondo quella che, nel bene e nel male, resta la ricetta quasi genetica della commedia italiana, che ha soprattutto cercato l’aggancio con una realtà da rispecchiare in presa diretta).

Siani invece s’è sempre rifugiato nell’escapismo rassicurante, che però in termini di botteghino ha offerto riscontri sempre più preoccupanti e risicati dato che, film dopo film, s’è passati dai 30 milioni di Benvenuti al Sud (in cui, d’accordo, Siani era solo uno degli ingredienti di una solida ricetta), ai poco più di due milioni della sua penultima regia, Chi ha incastrato Babbo Natale?.

Allora ben venga l’idea di un ritorno alla realtà (da cui probabilmente deriva la presenza come cosceneggiore, accanto a Gianluca Ansanelli, di Fabrizio Testini, che ha contribuito a film come L’Ora Legale di Ficarra e Picone). Purtroppo la realtà a misura di Siani si riduce a un labilissimo spunto di partenza. In Tramite Amicizia è un tale Lorenzo (ma non diventando mai un personaggio, e restando sempre inequivocabilmente Siani, che infatti parte presentandosi e raccontandosi in prima persona, sguardo in macchina confidenziale allo spettatore), titolare di un’agenzia che fornisce amici a noleggio a persone sole (inutile dire che l’agenzia ha un solo dipendente, sé stesso).

Stavolta la missione però è diversa: a chiedergli una mano sono i suoi familiari, che rischiano di finire in mezzo a una strada perché il loro datore di lavoro, l’ingegnere Dessè proprietario di una famosa fabbrica di dolciumi (Max Tortora), ha deciso di vendere agli stranieri l’azienda, perché è in un momento di profondo scoramento esistenziale. Il poveretto, insomma, si sente solo (e già come ritratto di imprenditore desta qualche perplessità). Chi potrebbe risolvere il caso se non Lorenzo?

Tutta qui la presunta realtà di Tramite Amicizia, che per il resto riserva l’usuale ricetta dei film di Siani, piallando ed anestetizzando qualsivoglia riferimento seppur lontanamente verosimile. E comunque, realismo o meno, il problema è la struttura del racconto, che giunge faticosamente alla durata standard di novanta minuti solo accumulando episodi e parentesi che con la vicenda principale hanno poco o niente a che fare. Perché quando Lorenzo e Dessè partono per la Francia alla ricerca del mai dimenticato grande amore parigino dell’ingegnere i due finiscono catapultati in un interminabile tentativo di rapina all’autogrill, con tanto di intervento di un commissario interpretato da Germano Lanzoni (che è lì forse tanto in quota “personaggio della rete” quanto milanese “imbruttito”)?.

Per non parlare del ruolo di Matilde Gioli, la cui unica funzione parrebbe quella di consentire in Tramite Amicizia l’inserimento della sottotrama sentimentale con annesso lieto fine, o del totale spaesamento di Cecilia Dazzi con accento francese. Apprezzabile solo l’omaggio a uno storico protagonista del cabaret italiano come Pippo Santonastaso, incastrato però anche lui in un ruolo improbabile, un anziano che attende da quarant’anni alla stazione il ritorno della vecchia fiamma svedese. Ma i conti non tornano: quarant’anni fa eravamo negli anni Ottanta, il mito delle svedesi era tramontato da un pezzo.

Il cinema di Siani è fatto così, chiuso in un’artificiosità da immaginario anni Cinquanta, popolato di figurine tenere, povere ma belle, persone per bene di un mondo conciliato e conciliante. Nel quale può accadere che la vera famiglia sia quella composta dall’industriale vecchio stampo, vittima di un’educazione senza carezze, e dai suoi amorevoli dipendenti, che gli regalano il tepore dell’abbraccio che il padre non ha mai saputo dargli. Che ha il sapore fragrante dei suoi buonissimi biscotti artigianali. Il realismo. Il mondo del lavoro.

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