L’Ombra di Caravaggio, vita d’artista in cadenze di grande spettacolo popolare

Il ritratto biografico tutto genio e sregolatezza era prevedibile. Ma la regia di Michele Placido, aiutata dall’ottima confezione, coglie nel segno, con un racconto disinibito, carnale, scostumato e divertito

Ombra di Caravaggio

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L’Ombra di Caravaggio, ben quattordicesima regia di Michele Placido, qui anche sceneggiatore (insieme a Sandro Petraglia e Fidel Signorile) e naturalmente coprotagonista, nel ruolo del libertino Cardinale del Monte, grande appassionato dell’arte “proibita” di Michelangelo Merisi, ha la sua cifra migliore nella sbrigliata dismisura di una narrazione senza eccessive preoccupazioni filologiche.

Forte della coproduzione italo-francese – che si vede subito nel cast, che affianca al quasi ovvio, somaticamente, Riccardo Scamarcio nella parte del pittore, le star transalpine Louis Garrel e Isabelle Huppert –, Placido costruisce un’ambientazione scenograficamente lussuosa, che si muove soprattutto tra Roma e Napoli, sovraccarica di personaggi, femminielli partenopei, prostituite, ladri, vagabondi, amori promiscui e sesso e violenza.

E, naturalmente, arte. Offrendo il ritratto del Caravaggio tutto genio e sregolatezza che ci si poteva facilmente aspettare, seduttore di donne e uomini, popolani, nobildonne e alti prelati folgorati dal suo talento immaginifico e concretissimo. Però arricchendolo con un senso della messinscena visivamente cupo, dinamico, carnale, che finisce per aderire all’estetica dell’artista, che racconta in una forma adeguata da grande spettacolare popolare.

Ne L’Ombra di Caravaggio si ricorre a un espediente canonico, quello dell’inchiesta, che Papa Paolo V (Maurizio Donadoni) affida a un glaciale funzionario detto l’Ombra (Garrel) per raccogliere informazioni sulla vita e l’arte sregolata di Caravaggio, per decidere se concedergli la grazia dopo l’assassinio in duello nel 1606 di Ranuccio Tomassoni (Brenno Placido) e la fuga e l’immersione nel liquido amniotico di una a lui molto congeniale Napoli.

Ciò permette al film di seguire il filo degli episodi della biografia caravaggesca, cominciando dai frustranti anni a bottega dal Cavalier d’Arpino, mettendo sempre in luce il suo muoversi disinvolto tra alto e basso, tra le protezioni influenti della nobiltà capitolina e il sottomondo della strada che gli è caratterialmente e ideologicamente proprio. Sempre, nell’ottica d’una narrazione volutamente elementare, coi buoni e i cattivi ben definiti: il rissoso Ranuccio col quale è sempre pronto a sguainare la spada (e anche la racchetta!) in una sfida perenne e infine tragica: oppure Baglione (Vinicio Marchioni), preso a simbolo dell’artista codino, che si tiene sempre nei binari del buon gusto e dell’ortodossia religiosa, una figura insomma agli antipodi della filosofia caravaggesca.

Qualcosa emerge dell’idea che è dietro la pittura dell’artista di origini lombarde, ovviamente la spinta al vero sempre richiamata, che si nutre di una conoscenza delle Scritture in cui si manifesta una forte tensione spirituale, condotta però in cadenze iconograficamente tutte sue proprie, inevitabilmente percepite come scandalose e sacrileghe. Il gran lavoro sulla fotografia di Michele D’Attanasio e sulle scenografie di Tonino Zera fa il resto, puntando alla mimesi con le ombre e i chiaroscuri delle sue tele.

Poi c’è di tutto e di troppo, con una propensione al grand-guignol – nella prima scena, subito a dare il tono a L’Ombra di Caravaggio, l’artista viene ferito da una stilettata che gli trafigge in primo piano la guancia – e una messinscena tra baccanale e carnevale. Disinibito è il racconto biografico che si muove tra pagine talvolta superflue – la storia con la prostituita interpretata da Micaela Ramazzotti –, talvolta di felice invenzione, come l’incontro immaginario in prigione con l’altro grande irregolare Giordano Bruno (un bravissimo Gianfranco Gallo), un attimo prima della condanna al rogo. E il frate orgogliosissimo e spaventato per il suo destino ovviamente si capisce al volo con Caravaggio, entrambi a loro modo indagatori di quei mondi infiniti che esistono e che l’ortodossia non vuole nessuno veda.

In queste infrazioni alla filologia e alla biografia il film trova una sua chiave di lettura paradossalmente consona a un personaggio che pure, e questo è un limite, viene guardato sempre attraverso una strizzata d’occhio compiacente, un’adesione quasi acritica, dando sempre ragione al suo istintivo ribellismo – che Scamarcio rende su note un po’ monocordi. In ogni caso L’Ombra di Caravaggio resta uno spettacolo accattivante e rutilante, che coinvolge proprio grazie alla sua impertinente scompostezza, e divertita scostumatezza.

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