Triangle of Sadness, il cinema-laboratorio, paradossale e politico, di Ruben Östlund

Vincitore della Palma d’Oro a Cannes, il regista svedese ripete la sua formula consolidata, spingendo i protagonismi in situazioni limite che mandano a gambe all’aria buone maniere e regole civili. Con effetti comici e tragici

Triangle of Sadness

Fredrik_Wenzel_©Plattform_Produktion


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In questo momento di crisi profonda del cinema su grande schermo va salutato con ottimismo il segnale di Triangle of Sadness, che alla seconda settimana di tenitura raddoppia il numero delle sale in cui è distribuito stante il, seppur limitato, successo di pubblico. Ed era francamente immaginabile, visto che il film e più in generale tutta l’opera del regista svedese Ruben Östlund, vincitore di una seconda Palma d’Oro a Cannes quest’anno dopo quella conseguita nel 2017 con The Square, sia una delle poche oggi a ricercare ostinatamente un cinema che – magari anche, come dicono i suoi detrattori, con mezzi e trovate ammuffite – ponga allo spettatore borghese interrogativi circa la consistenza di valori e stili di vita cui si affida.

Il meccanismo di Triangle of Sadness – quella porzione del volto tra l’attaccatura del naso e le sopracciglia che s’increspa e avvizzisce, mostrando senza infingimenti l’invecchiamento – ripete il solito meccanismo entomologico del cinema di Östlund. Che consiste sempre nel collocare i protagonisti in circostanze-limite, all’interno delle quali sono costretti a scrostarsi di dosso la buccia della buona educazione e del politicamente corretto, e mostrare quel che sono davvero. L’idea di fondo, stringi stringi, è che non solo il singolo, ma l’intera civiltà come faticosamente ce la siamo costruita e ce la autorappresentiamo pomposamente perlomeno noi occidentali, si muova costantemente a pochi centimetri dal baratro della nostra autentica, irredimibile natura selvaggia. E basta niente per ripiombarci dentro.

La realtà insomma, ce la fabbrichiamo un po’ alla maniera dello “Square” del film precedente, il quale era un’opera d’arte contemporanea, uno spazio quadrato delimitato definito un “santuario di fiducia e amore, all’interno del quale abbiamo tutti gli stessi diritti e doveri”. Il problema è che quella cornice è tanto salvifica quanto fasulla, in grado di funzionare e regolare le nostre esistenze solo fino a quando siamo disposti – e siamo in condizione – di rispettarne princìpi e confini. Cosa accade però quando siamo gettati in situazioni in cui il formalismo affettato delle buone maniere non è più sostenibile? O quando, per una volta, anche in un momento quotidiano apparentemente banale, decidiamo di interrogarci suoi nostri modi compìti, artefatti e recitati, imponendoci almeno di capire le ragioni innominabili sottese ai comportamenti?

Questo accade già in una delle primissime sequenze di Triangle of Sadness, una conversazione qualunque al ristorante tra due supermodelli fidanzati – stanno insieme principalmente per ragioni pubblicitarie – che si trasforma in un’interrogazione vertiginosa sul senso delle relazioni e dei suoi moventi reali. Quando arriva il conto, Yaya (Charlbi Dean, tragicamente scomparsa a soli 32 anni dopo aver girato il film) fa finta di nulla e Carl (Harris Dickinson), sebbene ricordi che la sera prima lei avesse detto di voler offrire la prossima cena, si trova costretto a pagare. Di qui scatta un’animata discussione in cui la verità è, inevitabilmente, legata da un lato al potere del denaro, e all’altra al conflitto tra i sessi con le sue norme non scritte e non dette, eppure ferree.

L’esperimento in vitro diventa ancora più esasperato quando si passa al secondo capitolo – il film è scandito in tre parti – di questo racconto (im)morale sulla società contemporanea: una crociera per super-ricchi che hanno “fatto i soldi con la merda”, come ripete giulivo un oligarca russo (Zlatko Burić), o vendendo armi – è il caso di una garbata anziana coppia che, appartenendo diversamente dal russo a una élite d’antico lignaggio e squisita educazione, chiama gli ordigni con nomi eufemistici. Il personale di bordo, allettato dal miraggio di mance da nababbi, esegue alla lettera quanto gli ospiti desiderano, sorridendo forzatamente e assecondando ogni loro capriccio.

Così Triangle of Sadness, ruotando ancora e sempre intorno a soldi e potere, insiste sul tema della lotta di classe e delle disparità che la ricchezza crea. E lo fa con intenti persino didascalici – qui tanto si può criticare Östlund quanto apprezzarne la chiarezza delle semplificazioni –, si veda ad esempio la gara dialettica tra il comandante della nave (Woody Harrelson), anticapitalista americano che cita Marx e Lenin, e il suddetto capitalista russo che s’affida ai campioni del liberismo Thatcher e Reagan.

Ancora più esemplare è la sequenza in cui, durante una raffinatissima cena – il che fa pensare che dopo l’arte contemporanea e qui la moda, Östlund potrebbe dedicare il prossimo film ai ristoranti stellati, trionfo di una ricercatezza costossima che sconfina nel ridicolo –, una terribile tempesta fa star male tutti. Così le viscere riprendono il sopravvento sulle buone maniere, rivelando di quale pasta (nausebonda) siamo fatti. Anche qui nel paradossale trionfo di liquami c’è molto di già visto – Il Senso della Vita dei Monty Python, ovviamente, ma pure una vecchia canzone di Giorgio Gaber, La Nave, ripetuta quasi alla lettera.

Il meccanismo è ribadito nella terza parte di Triangle of Sadness, quando, dopo il naufragio, passeggeri e personale di bordo superstiti si ritrovano su di un’isola deserta. Ed ecco che, passando dall’abbondanza alla penuria, i rapporti si ribaltano e la lotta di classe continua su altri presupposti e gerarchie, non legate più al possesso del denaro ma alle qualità peculiari di ognuno, quel che sai fare e quel che sei. E la bellezza, cui si affida Carl per trarne qualche vantaggio materiale, resta l’unica moneta che ha valore tanto nel mondo civilizzato che in quello selvaggio. Così l’esperimento da laboratorio si conclude.

Ruben Östlund con Woody Harrelson e altri attori sul set – Fotografia Tobias Henriksson ©Plattform_Produktion

È ripetitivo e prolisso Triangle of Sadness, con una durata, due ore e mezza, spropositata per l’esilità delle tesi. Il film funziona meglio quando punta alla sintesi fulminante, come nel prologo dedicato al mondo del fashion, in cui si vedono supermodelli degni di Zoolander che cambiano istantaneamente espressione a comando, a seconda del fatto che debbano “incarnare i valori” di un brand esclusivo – sguardo accigliato da bello e impossibile – o di una marca per tutte le tasche – sorriso ebete e piacione.

È innegabile però che, nel parlare senza eufemismi e senza esclusione di colpi di soldi, disparità sociali, tabù, facendo crollare l’artificiosa impalcatura di gerghi, regole astratte, consuetudini ostentate dietro cui ci nascondiamo, Östlund riesca a destare dal suo torpore di consumatore lo spettatore, provocandolo e mettendolo in discussione rispetto a questioni che lo riguardano e che è obbligato a guardare in uno specchio deformato, nel quale, volente o nolente, si riconosce.

In questo senso è un cinema importante. Anche se poi, il film assomiglia alla crociera che, dice una delle responsabili dell’equipaggio, ha successo quando funzionano il primo giorno e l’ultimo. Dal punto di vista dell’estetica cinematografica, a Triangle of Sadness succede la stessa cosa: prologo sulla moda folgorante, finale volutamente sospeso, raggelante. Nel mezzo tante lungaggini. Ma appunto, va bene così.

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