Santa Lucia: Napoli, due fratelli e i fantasmi di un passato incancellabile

Prodotto da Teatri Uniti, l’esordio di Marco Chiappetta è una discesa nel labirinto di una città impossibile da abbandonare. Un racconto delicato con gli ottimi Renato Carpentieri e Andrea Renzi. Dal 3 novembre in sala

Santa Lucia

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Santa Lucia, film d’esordio scritto e diretto dal trentenne Marco Chiappetta, già passato al Torino Film Festival, segna il ritorno alla produzione di lungometraggi di finzione dei Teatri Uniti di Angelo Curti, una realtà centrale nella storia del teatro e del cinema contemporaneo a Napoli, nata nel 1987 dall’unione delle tre compagnie Falso Movimento, Teatro dei Mutamenti e Teatro Studio di Caserta, e quindi dei loro fondatori, rispettivamente Mario Martone, il mai troppo compianto Antonio Neiwiller e Toni Servillo. Oltre agli spettacoli per il palcoscenico, Teatri Uniti produsse alcuni film decisivi della nuova ondata autoriale partenopea, a cominciare dal folgorante Morte di un Matematico Napoletano di Martone nel 1992, e poi le prime regie di Paolo Sorrentino, L’Uomo in Più nel 2001 e Le Conseguenze dell’Amore nel 2004.

Da buon napoletano emigrato, Chiappetta per quest’opera dalla complessa gestazione – le riprese, poi posticipate, sarebbero dovute cominciare nel marzo del 2020, il momento esatto dell’esplodere dell’emergenza Covid – concentra tutta la sua riflessione intorno alla questione dell’identità, quell’insopprimibile groviglio di sofferenza, malinconia, nostalgia, che afferra alla gola qualunque napoletano abbia abbandonato la terra madre. Non a caso si usa il termine nostalgia, titolo anche del recente e tematicamente affine film che Martone ha tratto dal romanzo omonimo postumo di Ermanno Rea. Uno scrittore che, pensiamo soltanto al bellissimo Napoli Ferrovia, ha incardinato la sua scrittura intorno all’indispensabile resa dei conti con la città da parte di chi l’ha lasciata, vivendo il sollievo della distanza mescolato a un senso di colpevolezza e la consapevolezza di dover venire a patti con la memoria, il passato e quel luogo che resta, volenti o nolenti, “casa”.

Santa Lucia si muove dentro questa contraddizione esistenziale perenne del napoletano, scegliendo un titolo ambivalente che è sia quello d’un rione della città affacciato sul golfo, sia la santa protettrice della vista. Che è quanto ha perduto Roberto (Renato Carpentieri, altra figura centrale del teatro di ricerca e del cinema napoletano dai Settanta in poi), professore di letteratura e romanziere divenuto cieco che da quarant’anni vive in Argentina, il quale torna a Napoli quando riceve la notizia della morte dell’anziana madre. In città incontra dopo decenni il fratello Lorenzo (Andrea Renzi), che invece non s’è mai mosso di lì, e par vivere, o sopravvivere, da totale nullafacente. Per ritrovare davvero il fratello, Roberto è costretto a toccarlo insistentemente sul volto, misurando col tatto la memoria del passato e gli inevitabili cambiamenti dettati dallo scorrere del tempo.

Il paradosso quindi per il protagonista è quello di rivivere la città in una forma parziale, incompleta – infatti le prime immagini del film restituiscono la consistenza lattiginosa di macchie che rimandano all’esperienza ormai nebulosa della realtà di Roberto, che ha però imparato un altro modo di stare al mondo, diffidando dell’inganno spesso insito nel vedere troppo chiaramente le cose.

Il film vive nel continuo confronto dai toni piuttosto letterari tra Roberto e Lorenzo, tra un uomo senza vista ma ricco di vita e un altro apparentemente acquietato che però ha troppo poco visto e vissuto. E come allucinzioni, ieri e oggi s’incastrano in Santa Lucia, non attraverso i flashback ma nella sovrapposizione delle temporalità, coi vivi e i morti, un indimenticato amore giovanile, i litigiosi Roberto e Lorenzo bambini che si ritrovano insieme al Roberto anziano nei luoghi di una Napoli perenne, insieme passata e presente.

Santa Lucia ricostruisce la topografia non oleografica di una città ritratta in colori autunnali lividi e scostanti, che scarta dall’ovvio e dal pittoresco, attraverso inquadrature di composti palazzi borghesi e giardini ordinati. L’insieme, anche per l’uso insistito di metafore quali cecità e labirinto – entrambi rimandano al sapore scolasticamente borgesiano del personaggio di Roberto – possiede una cifra di messinscena quasi metafisica. Anche se poi, a contrasto, ci sono elementi legatissimi all’identità napoletana: un semplice forno per le pizze ritratto come fosse il centro ribollente d’un vulcano – l’energia tellurica della città; la presenza delle dolci materne melodie partenopee, con Lorenzo, ex musicista fallito, che canta Passione.

A un certo punto compare la copertina di un disco del maestro Sergio Bruni intitolato Ncopp’ a ll’onna. E non è forse un caso, dato che la celebre canzone di Libero Bovio possiede un ritornello dal sapore sospeso ed enigmatico, come il tono cercato dal film: “Comm’è bello ’int’ ’a varca a durmì! / Doce è ’o suonno ca me sonno, /  ah, putesse, sunnanno, murì!”.

Santa Lucia ha i pregi dell’opera prima a lungo meditata: un’indubbia eleganza stilistica, la gentilezza del tocco che indaga dettagli perspicui, la capacità di radiografare il gioco d’attori impeccabile tra il più ruvido Carpentieri e l’apparentemente frivolo Renzi. E mostra anche i limiti frutto della stessa laboriosa meditazione: l’assenza di una conclusione che sia veramente tale – pur essendoci un segreto da svelare – e soprattutto una cadenza programmatica che punta al simbolo allusivo, all’epifania estatica, alla sentenza esplicativa (“Non ho dimenticato niente, è questa la mia punizione!”), per un film che resta più sulla pagina che inciso nelle immagini. Ma lo sguardo d’autore sembra esserci.

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