Sergio Leone. L’Italiano che Inventò l’America: la passione del cinema tra mito e autobiografia

Il documentario di Francesco Zippel ricostruisce la figura del regista con partecipazione ma senza agiografia. Tanti testimoni eccellenti, da Eastwood a Scorsese, Spielberg e Tarantino, Frank Miller e Robert De Niro

Sergio Leone

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Passato in concorso nella sezione Venezia Classici dell’ultima Mostra del Cinema, Sergio Leone. L’Italiano che Inventò l’America dà l’impressione quasi inevitabile di comporre un dittico col fortunato Ennio, il ritratto dedicato da Giuseppe Tornatore a Morricone, il compositore che proprio con le colonne sonore per i western di Leone ha imposto la sua rivoluzionaria cifra autoriale sulle musiche per il cinema. Tornatore è anche uno dei volti che compare nel prestigioso consesso di registi ed esperti intervistati nel documentario diretto da Francesco Zippel, già autore di lavori cinefili come Hollywood bruciata, ritratto di Nicholas Ray e Friedkin Uncut.

Sergio Leone. L’Italiano che Inventò l’America è prodotto da Sky Studios e Sky Italia con la collaborazione e per la volontà della Leone Film Group dei figli Raffaella e Andrea Leone. Va detto, pur facendo capolino un certo inevitabile senso di nostalgia, che gli eredi del regista mantengono con discrezione un ruolo appartato, che non fa scivolare il documentario nella retorica del sentimentalismo familista. Al centro del racconto, che segue la cronologia dalle origini della vocazione d’artista sino alle ossessioni della maturità – i tredici anni per la realizzazione di C’Era una Volta in America, l’avventura incompiuta del film sull’assedio di Leningrado, interrotta dalla morte nel 1989 a soli sessant’anni –, campeggia la novità del magistero stilistico di Leone. Da cui emerge, netta, una cifra autoriale, in una carriera di soli sette titoli che ha cercato sempre di tenere unite Hollywood e il cinema europeo, una narrazione di grande presa spettacolare e popolare e una raffinatezza espressiva di perspicua originalità iconografica.

Guardando Sergio Leone. L’Italiano che Inventò l’America si scopre anche l’enorme ammirazione nutrita per il regista italiano da Steven Spielberg, uno dei più attenti ad analizzare il suo cinema tra i tanti nomi intervistati da Zippel. Una lista che comprende ovviamente Clint Eastwood e Quentin Tarantino – “separato alla nascita da Leone”, la fulminante definizione è di Spielberg –, ma anche Martin Scorsese, Damien Chazelle, Darren Aronofsky, il fumettista e regista Frank Miller, il produttore Arnon Milchan, Robert De Niro, Dario Argento (che con Bernardo Bertolucci scrisse la sceneggiatura di C’Era Una Volta il West), il quasi biografo Carlo Verdone e il biografo vero e proprio Christopher Frayling.

Un piccolo gioco affettuosamente leoniano – tutti gli intervistati ripresi in primissimo piano con il taglio degli occhi che esplode occupando tutta l’inquadratura, inconfondibile cifra del suo cinema –, dopo il quale partono quasi sempre testimonianze tutt’altro che d’occasione. Le quali, mescolate ai brani dei suoi film restituiti al grande schermo – dove ritrovano il loro autentico respiro cancellando la memoria incerta delle nostre anguste visione casalinghe –, attivano un inevitabile senso di malinconia, per un’epoca di un cinema produttivamente solido e perciò nutrito, nei suoi autori migliori, di grande ambizione immaginativa. Che in Leone trova un interprete e un innovatore, per quella capacità inimitabile e perciò imitatissima di riattivare il mito del cinema classico hollywoodiano distillandovi al suo interno un’ispirazione europea e cinefila, insieme intrisa di un’autobiografia dissimulata – “il cinema è uno spettacolo immenso in cui si propongono fatti della vita mascherati, attraverso la favola e il mito”, dice in un’intervista di repertorio Leone.

Allo stesso tempo, insieme alla fascinazione, opera nel suo cinema la consapevolezza del distacco, dell’impossibilità per gli spettatori degli anni Sessanta di vivere con la stessa ingenua, istintiva adesione quei racconti in cadenze mitologiche di pistoleri senza macchia e senza paura. E allora Leone, come sottolinea Frayling, si assume il compito di “raccontare il western a una generazione che non ci credeva più”, rinnovandolo dall’interno, intagliando personaggi proverbiali e insieme chiaroscurali, innervando il genere di grottesco e picaresco, alzando la temperatura della violenza in chiave iperrealista e manierista, ridando energia all’epica e insieme presagendo la chiave del racconto postmodernista di cui il suo cinema costituisce una tappa di avvicinamento essenziale.

Robert De Niro, nell’inquadratura tipo di tutti gli intervistati del documentario

L’inizio del cinema moderno, la rivoluzione della New Hollywood – dice Quentin Tarantino – parte con Sergio Leone”, con questa operazione di secondo grado, è ancora Frayling a sottolinearlo, di mitizzazione (all’italiana) del mito originario del western a stelle e strisce, che attraverso il filtro umoristico e sardonico di Leone è reinventato, messo tra parentesi, anche se mai deriso o parodizzato (come avverrà negli spaghetti western di tanti epigoni).

Leone è anche, ribadisce Gianluca Farinelli, storico direttore della Cineteca di Bologna, “l’ultimo grande cineasta del muto”, che nella collaborazione con Morricone, anch’egli presente nel documentario, trova i suoni originali (le note, i rumori, i fischi, i colpi di pallottola, gli schiocchi di frusta) da accostare alla sua sbrigliata fantasia visiva, dando vita a quella partitura per occhi e orecchie che davvero potrebbe fare a meno delle parole – come talvolta accade, ad esempio nel celebre lunghissimo incipit muto di C’Era una Volta il West, debitamente ricordato.

Da Sergio Leone. L’Italiano che Inventò l’America emerge anche l’artista ossessivo e umbratile. Quello che, giunto finalmente dopo un decennio di tribolazioni a girare C’Era una Volta in America, protrae le riprese per mesi, “dando la sensazione – dice Robert De Niro – che non volesse finire il film”, ostaggio forse dei suoi stessi sogni, fedele a un’idea di cinema in cui il fare film è più importante del film finito. Un’idea degna di Orson Welles: ed è Arnon Milchan a dire che, la prima volta in cui incontrò Leone, gli fece l’impressione un po’ di un Buddha, un po’ di un Welles del vecchio continente.

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