Il Colibrì della Archibugi è un incolore melodramma borghese e benpensante

Tratto dal romanzo di Sandro Veronesi, il film con Favino ripercorre lutti, tragedie, amori impossibili di un brav’uomo che fa di tutto per resistere agli urti della vita. Come il colibrì che sbatte furiosamente le ali per restare fermo sul posto

Il Colibrì

INTERAZIONI: 828

Film d’apertura un paio di giorni fa alla rinnovata Festa del Cinema di Roma, Il Colibrì, che Francesca Archibugi ha tratto dall’omonimo romanzo bestseller e premio Strega 2020 di Sandro Veronesi (che nel film compare in un cameo stracult come amante di Kasia Smutniak), fa pensare per antifrasi, a proposito di metafore zoologiche, allo “stile dell’anatra” elogiato da Raffaele La Capria (cui, per dar qualche attendibilità all’improvvisato parallelo, si ricorderà che Veronesi aveva reso omaggio dedicandogli la prefazione d’una riedizione del capolavoro Ferito a Morte, premio Strega anch’esso, ma 1961).

La Capria dell’anatra lodava il dinamismo, quel solcare rapidissimo la superficie dell’acqua ottenuto senza sforzo evidente e invece frutto di un infaticabile quanto impercettibile lavorio subacqueo, delle zampette impegnate in un incessante mulinello. Ovviamente stava parlando di letteratura, dell’eleganze di uno stile che nasconde al lettore le difficoltà di cui è frutto, offrendogli il nitore d’una pagina trasparente, apparentemente lineare e invece distillato di una complicazione dissimulata.

Ecco, Il Colibrì, film e libro, sembra l’esatto opposto. È vero, quella dell’uccellino è usata da Veronesi (e quindi dalla Archibugi e dai suoi cosceneggiatori Laura Paolucci e Francesco Piccolo) come un simbolismo narrativo, per delineare il carattere del protagonista Marco Carrera (Pierfrancesco Favino), medico oculista (altra metafora) che s’è affaticato tutta la vita per tenere insieme i pezzi d’una esistenza piena di traversie, appunto con lo stile dell’uccellino cui da bambino assomigliava anche per complessione fisica (era minutissimo, e colibrì lo chiamava affettuosamente la mamma) che sbatte furiosamente le alucce solo per restare caparbiamente fermo sul posto.

La metafora vuole dar conto del personaggio, eppure funziona molto bene anche per descrivere un libro e un film che invece di occultare lo stile e la materia narrativa, puntano tutto sull’evidenza dell’accumulazione. Da un lato, cosa che si coglie soprattutto nel romanzo, accostando registri e generi eterogenei (dal racconto tradizionale in terza persona a capitoli che riproducono dialoghi, lettere d’amore, cartoline, e-mail, sms scritti di loro pugno dai protagonisti, con oltretutto un arco cronologico che si distende lungo settant’anni). Dall’altro disseminando la vicenda di tragedie, sventure, tradimenti, amori spezzati o impossibili, con un romanzesco spinto, “col dolore che le grondava da tutte le parti”, come Veronesi scrive a proposito del personaggio di Adele (Benedetta Porcaroli), ma è cosa che vale per la storia nel suo insieme.

Lo spettatore de Il Colibrì viene trasportato in una vicenda turbinosa, che usa il meccanismo ormai piuttosto usurato della cronologia scomposta, ricombinando passato presente e futuro in ordine sparso. Così vediamo il Marco Carrera ragazzo (Francesco Centorame), figlio di un meticoloso ingegnere (Sergio Albelli), appassionato di modellini – altra metafora, pedante, sulla vita che è meglio ricreata ad arte che vissuta – e di una architetta (Laura Morante), al centro di una famiglia inevitabilmente infelice, per quanto altoborghese e affluente, nella quale è la sorella di Marco, Irene (Fotinì Peluso) a sobbarcarsi il ruolo di catalizzatrice del dolore di quel fallimentare sistema relazionale, con le conseguenze funeste che si possono prevedere.

Di lì, dopo il primo lutto, è tutta una sequela di sofferenze – per quanto sempre, sotto il profilo materiale, la vita di Marco resti agiatissima – con amori assurdamente platonici il cui fuoco non smette mai di ardere decennio dopo decennio (per la Luisa di Bérénice Bejo), casi inseguiti come segni del destino (che lo portano a scegliere su due piedi di sposare Marina [Kasia Smutniak]), confessioni tonitruanti di psicanalisti in crisi (Nanni Moretti), la figlia Adele affetta in tenera età da un disturbo ossessivo (è convinta di avere un filo legato dietro la schiena, altra metafora), amici che portano iella, ludopatia.

Insomma, come scrisse in una empatica recensione del libro Alessandro Piperno, considerandolo però un pregio, Veronesi “non si fa nessuno scrupolo a riempire il romanzo di coincidenze implausibili e strazianti colpi di scena”, apprezzando il “susseguirsi di arie sempre più elettrizzanti”. E però tutto questo inchioda Il Colibrì a una certa superficialità, impegnato a mostrare un’effettistica e ricattatoria enciclopedia dello strazio, che alla fine però vuole farci la morale benpensante su tutto questo dolore che ci sarà utile portando a maturazione il protagonista.

E se almeno Veronesi accumula liste, nomi, luoghi, date, merci che profumano ognuna delle varie epoche in cui si svolge la storia, la Archibugi, pur saltando tra le decadi, sospende Il Colibrì in una sorta di spazio atemporale in cui ogni stagione è uguale all’altra, in un film ombelicale interamente impaginato dentro i sentimenti (ancora!), l’onnipresente privato di famiglie altoborghesi che galleggiano in un non luogo nel quale non risuona mai il brusio della Storia con la esse maiuscola, in anni ridotti a fondale di cartone.

Ci fosse stato almeno il colpo d’ala dell’assumersi il rischio del ridicolo d’una materia ribollente da tradurre assecondandone l’alta temperatura, cosa che avrebbe potuto fare un Gabriele Muccino con i suoi toni gridati e sopra le righe, e però rabbiosi, di pancia, accattivanti (infatti lui gli spettatori riesce ancora a portarli in sala). La Archibugi si premura invece di tenersi lontana da accenti sanguigni e gaglioffi, e delinea un mélo ovattato e rarefatto, nel quale pure la macchina da presa non osa mai un guizzo, un movimento, uno scarto dall’ovvio e dal composto.

Sarà per questo che i personaggi, a partire da Favino, per una volta incolore (capita anche ai migliori), assumono la stessa espressione pallida e inerte del film, cui la ricombinazione delle temporalità, con i continui passaggi d’epoca in montaggio, invece che a intensificare emozioni e colpi di scena, serve a stemperarli, a depotenziarli. Il Colibrì è imperscrutabile, piuttosto fallimentare, una materia da soap opera con un trattamento da romanzo per ceto medio riflessivo, che non concede nemmeno il piacere perverso del kitsch sentimentale.

Continua a leggere su optimagazine.com