Eurovision, un posto silenzioso

Una apocalisse sonora, con per di più l’aggravante di averci presentato il tutto accompagnato da spettacoli sempre sopra le righe, trash che neanche ambisce a affrancarsi dal brutto, quasi gongolando nell’essere kitch, sgradevoli, imbarazzanti

Eurovision song contest

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C’è un film con Emily Blunt, anzi, una minisaga, perché di film ne sono già usciti due, dal quale vorrei partire. Si intitola A quiet place, e ci racconta di un futuro distopico nel quale la Terra, o almeno la porzione di Terra nella quale si svolge la storia, è stata invasa da alieni cattivissimi che vogliono eliminare l’umanità. Alieni che sono ciechi, ma sono dotati di un udito finissimo, al punto che un benché minimo rumore li attira. Gli umani, i sopravvissuti, sono quindi costretti a vivere nel più completo silenzio, sperando di non causare nessun tipo di suono, anche involontariamente. Un posto silenzioso, appunto, come recita il titolo, così è diventata più o meno la Terra. Il film, anzi, i film, Emily Blunt a parte, non è nulla di indimenticabile, ma ci fa guardare al mondo dei suoni e del rumore sotto una prospettiva un minimo inedita. Almeno per distrarci da una trama che, diciamolo, non è esattamente una botte di ferro.

Riusciremmo mai a vivere in completo silenzio? Questa una delle domande che siamo naturalmente portati a chiederci, vedendolo.

Domanda in apparenza sciocca, ci sono persone, gli ipoudenti, i sordi, che lo fanno da sempre, ma che contempla l’ipotesi di un cambiamento repentino e radicale, tutti di colpo nel film sono costretti al silenzio più totale, pena l’essere devastati da alieni che sembrano una via di mezzo tra una mantide e un ragno. La storia dell’umanità, forse finirò a parlare di evoluzione, temo, ci ha dimostrato che siamo esseri estremamente adattabili, già basta pensare che siamo passati dal vivere nelle caverne aggirandoci scalzi e coperti da pelli di animali, animali uccidi a colpi di bastoni e ossa, a ipotizzare di andare con Jeff Bezos in un prossimo giro intorno al pianeta per capire come siamo cambiati, vai poi a capire se in meglio. Siamo esseri adattabili e, se fosse necessario, questo ce lo dice a suo modo anche A quiet place e A quiet place II, sapremmo anche rinunciare ai suoni, a qualsiasi tipo di suono, musica compresa. Certo, per chi come me nella vita ha deciso di essere un critico musicale la faccenda potrebbe complicarsi, ma del resto siamo partiti parlando di invasioni aliene, di mostri giganteschi muniti di giganteschi orecchi e pronti a distruggerci, non è che uno può star lì troppo a andare per il sottile.

Ora, non è certo di film di discutibile qualità che voglio parlarvi. Già fatico a farlo riguardo alla musica, figuriamoci se devo pure star qui a passare le giornate a scrivere di opere che suppongo non lasceranno traccia dietro di loro, o quantomeno è questo che mi auguro. Solo che per lavoro, solo e soltanto per lavoro, ci tengo a dirlo, ho dovuto sorbirmi le due puntate televisive di Eurovision, cioè le due semifinali, in preparazione della serata finale di oggi, 14 maggio. Certo, non ho dovuto andare a Torino per farlo, sono un uomo di una certa età, credo di essere arrivato a quel punto della mia carriera in cui posso permettermi di delegare a altri queste incombenze, o semplicemente passo sufficientemente per stronzo perché nessuno osi chiedermi di fare cose che sono troppo oltre la soglia del fastidio, ma ho comunque dovuto impiegare qualche ora della mia vita, poco più di quattro, fin qui, a ascoltare quello che, sulla carta, dovrebbe essere il meglio dell’offerta pop europea, sempre che essere rappresentati da Blanco e Mahmood non implichi già di per sé la fallacia di questa affermazione.

Tra commistioni improbabili di folk e dance, di power rock e musica etnica, passando per il neomelodico, la chanson francese rivisitata, l’EMD spinta, certo pop anni novanta che speravamo di esserci lasciati definitivamente alle spalle, le venticinque canzoni in gara, tante erano dopo lo sfoltimento delle semifinali che hanno visto cadere meritatamente anche Achille Lauro, sempre più parodia di se stesso, si sono dimostrate in maniera ineccepibile la plastica incarnazione degli alieni di A quiet place, roba capace di spazzarci via al primo ascolto, senza possibilità di scampo. Una apocalisse sonora, questa la sintesi, con per di più l’aggravante di averci presentato il tutto accompagnato da spettacoli sempre sopra le righe, trash che neanche ambisce a affrancarsi dal brutto, quasi gongolando nell’essere kitch, sgradevoli, imbarazzanti. Roba che, non fossimo comunque stati in parte lì anche per riderne, e come non ridere di un programma che si presenta come il più importante spettacolo musicale del mondo e fa passare certe oscenità senza che nessuno si senta autorizzato a salire sul palco e freddare con un colpo alla nuca i sedicenti artisti, saremmo stati tutti autorizzati a invocare non tanto il famoso meteorite, ormai ci è chiaro a tutti che non arriverà nessun meteorite a salvarci da questa decadenza e questo declino, come dire, forse è il caso di organizzare una controffensiva, quanto piuttosto una sorta di autoregolamentazione che ci spinga a estirpare le corde vocali, magari anche praticando una qualche forma di lobotomia spartana, va bene anche un ferro da lana, a chiunque provi ancora a calcare il palco dopo aver dimostrato di essere portatore insano di tanta bruttezza, consapevoli che, ci adattiamo a tutto, ma non è sempre piacevole, prima o poi potrebbe succedere che a essere estirpato con la forza bruta saranno i nostri padiglioni auricolari, perché a mali estremi è bene contrapporre estremi rimedi.

In A quiet place, attenzione spoiler, l’unica maniera trovata per combattere gli insettoni alieni è di appoggiare un apparecchio acustico, una delle protagoniste è una ragazzina sorda, a un amplificatore, così da creare un fischio fastidioso, puro rumore, tecnicamente si chiama “larsen”, capace di intontire i cattivi, così da poter poi sparare loro in testa, freddandoli. Un piccolo amplificatore, un Marshall pret-a-porter salverà il mondo dal male, ci ha voluto dire il regista di quella fetenzia di film. In attesa che tutto questo avvenga non possiamo far altro che organizzare una resistenza attiva, venderemo cara la pelle, brutte bestie.