I Maneskin a Coachella e la fallibile arte dei distinguo

L’esibizione dei Maneskin al Coachella, uno dei massimi festival in ambito rock e pop del mondo, sicuramente uno dei più fighi e alla moda, è stata esemplare

Photo by commons.wikimedia.org - Bruno


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Fossimo tra quanti si trincerano dietro le proprie solide, tombali addirittura, convinzioni, adesso dovremmo lasciarci andare a tutta una serie di distinguo. I distinguo, è noto, sono di facile reperibilità, qualsiasi sia l’argomento in discussione, basta solo lasciare che un minimo di benaltrismo abbia il sopravvento, basta lasciare che un pizzico di fondamentalismo si insinui sottotraccia, basta allestire paragoni improponibili, c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Questo senza necessariamente dover risultare forzati o in malafede, intendiamoci, una analisi, in quanto tale, parte da un preciso punto di vista, e se il punto di vista dal quale si decide di partire è in un cucuzzolo, beh, facile che tutto quel che si racconti risulti a valle, lontano, sfocato, a dirla tutta di bassa rilevanza.

Ma non siamo così, o meglio, non sono così. E seppur io sia stato e tuttora sia uno dei più strenui stigmatizzatori di una narrazione univoca e, questa sì, forzata, una narrazione che ha evidenziato all’inverosimile i picchi in alto, cancellando  violentemente tutti quelli in basso, finendo per risultare talmente di parte da apparire quasi di regime, tutto bello, tutto di successo, tutto stupendo, anche laddove era evidente a chiunque fosse munito di occhi e orecchie che la faccenda era decisamente diversa, basterebbe dare un’occhiata ai media internazionali, leggere che voci venivano amplificate e quali taciute, seppur, quindi, io sia stato e tuttoar sia uno dei più strenui stigmatizzatori di una narrazione univoca, forzata, credo che oggi sia il giorno di dare a Cesare quel che è di Cesare. Intendiamoci, e questo non è ovviamente un distinguo, quanto una puntualizzazione scarabocchiata a bordo pagina, tanto per non finire incluso in quella genia di colleghi a quattro zampe lì a leccare culi come non  ci fosse un domani, non che questo cambi nulla di quanto fin qui ho scritto, il giudizio artistico era tale e tale rimane, come tale rimane il disagio nell’aver letto così tanti successi gonfiati, parole enormi spese per un progetto che stava sì avendo successo, il successo è innegabile, ma che ancora poco se non addirittura nulla di artisticamente rilevante aveva e ha detto.

Basta girarci intorno, sia mai che qualcuno pensi che io sia come un Arthur Fonzarelli, meglio detto come Fonzie, il bullo di Happy Days che non riusciva, questa la sua natura umana, a dire “scusa”, non è mica un articolo di scuse questo, ci mancherebbe pure altro, credo sia arrivato il momento di dirlo: l’esibizione dei Maneskin al Coachella, uno dei massimi festival in ambito rock e pop del mondo, sicuramente uno dei più fighi e alla moda, è stata esemplare. Di più, i quattro ragazzi romani hanno portata a casa la gig di cinquanta minuti, mentre intorno a loro per altro era un proliferare di altri live, sei i palchi di questo che è un vero e proprio mondo a parte, musica e musica, con una tale naturalezza da lasciar pensare che non abbiano fatto altro, in vita loro, che calcare palchi di quel genere, dimostrandosi artisti, sì artisti, di rilievo e levatura internazionale, almeno da vivo.

Cinquanta minuti, non i dieci di un passaggio televisivo, a vedersela col meglio della musica rock e pop internazionale, non è una sfida da poco, basta sbagliare un passaggio in scaletta che la platea si svuota, il pubblico a scivolare sotto un altro palco, a vedere altro. Qualcosa, quindi, che richiede mestiere, certo, e arte, e che pretende, perché di pretesa si tratta, di una capacità di saper gestire il “qui e ora” che solo l’essere animali da palcoscenico può metterti a disposizione. E a dirla tutta, la sensazione ricevuta dall’aver visto la loro gig è esattamente questa, che i Maneskin abbiano in questo mirabolante anno trascorso a fare incetta di pacche sulle spalle, dalla vittoria di Sanremo a quella di Eurovision, via, poi, verso la conquista apparente del mondo, tra successi reali e successi raccontati con un po’ troppa enfasi, la sensazione è che i Maneskin abbiano in questo mirabolante anno acquisito una padronanza sul palco da star navigate, tutti fanno bene la loro parte, con Damiano che si mangia il palco tenendo il pubblico catalizzato su ogni sua movenza e parola, e Victoria che controbilancia la faccenda, lì a suonare il basso in bikini. Il tutto mentre si srotola un repertorio, anche questo non è un distinguo, ma una constatazione amichevole, del tutto irrilevante, i picchi dati da tre cover, una incisa e vero motore di questa ascesa, la a mio avviso risibile Beggin, una cover il cui ascolto non manca di mettermi a disagio, e quelle I Wanna Be Your Dog di Iggy Pop e Womanizer di Britney Spears che fungono esattamente da paletti entro i quali i nostri si muovono, iconoclastia punk, ma di un punk col tempo divenuto canone, assolutamente innocuo proprio perché decodificato e metabolizzato da qualsiasi tipo di pubblico, e un pop gender fluid che occhieggia a ogni passaggio agli ormoni, a una sensualità anche quella vagamente plastificata, buona per costruirci su balletti e movenze ammiccanti.

Tutto ben suonato, ben impacchettato, ben tenuto in una costruzione di show impeccabile, senza passi falsi e anche senza pause, il che, in un Festival con più palchi, risulterebbe altrimenti errore fatale. Quel che manca, e che è sempre mancato, è il repertorio proprio. Canzoni, cioè, in grado di reggere su quel palco come nel passare degli anni. Perché se è vero che Vent’anni, Coraline o Torna a casa sono belle canzoni, magari non eccelse ma comunque valide, e se è vero che Zitti e buoni, seppur talmente derivativa da essere quasi ascrivibile alle cover di cui sopra, è comunque un pezzo che si fa ascoltare, meno banale di quanto non possa apparire, è pure vero che il repertorio dei Maneskin è davvero poca cosa, scontato, ripetitivo, a tratti quasi inutile. Bene, quindi, il loro passaggio a Coachella, credo a tutti gli effetti l’iscrizione di ufficio del loro nome nel novero delle band internazionali del momento, fatto inedito per una realtà italiana da sempre, ma sarebbe forse il caso di mettersi ora a scrivere canzoni come si deve, o a farsele scrivere da chi lo sa fare.

Bravi, quindi, ragazzi. Andava detto e l’ho detto. Adesso, però, basta lingerie e “fuckin’” gridati ogni due per tre, o almeno, continuate pure con quello, ma tirate fuori le canzoni.