C’Mon C’Mon, Joaquin Phoenix e la difficoltà di essere genitori (e figli) in un tempo fragile

Un giornalista radiofonico per un po’ deve occuparsi da solo del nipote di 8 anni. Un film che parla di infanzia, responsabilità, futuro, in cerca di un difficile equilibrio tra documentario e fiction. Più costruito che emozionante. Dal 7 aprile in sala

C’Mon C’Mon

INTERAZIONI: 300

Dopo l’impressionante tour de force attoriale di Joker, Joaquin Phoenix torna al cinema con C’Mon C’Mon, nel quale tocca una tastiera emotiva completamente differente disegnando, dopo l’introversione ossessiva del personaggio che gli ha meritamente fruttato l’Oscar, la figura quotidiana, empatica e calorosa di un uomo qualunque.

Johnny, nel film diretto da Mike Mills, è un giornalista radiofonico impegnato in un suo nuovo progetto, una serie di interviste in giro per l’America ai bambini, per cogliere nelle loro voci il riflesso delle ansie, paure, sogni, aspettative in un mondo sempre più incerto. “Come sarà la natura? Come cambierà la tua città? Le famiglie rimarranno le stesse? Cosa ti ricorderai e cosa dimenticherai?”. Nel mentre raccoglie le risposte su questi temi universali dei suoi intervistati – tutti non attori, giovani studenti presi dalla realtà –, Johnny si ritrova catapultato anche nella vita della sua famiglia.

La sorella Viv (Gaby Hoffmann) infatti, con la quale aveva litigato tempo addietro, ha bisogno di aiuto per affrontare la crisi del marito Paul, affetto da bipolarismo. Perciò chiede al fratello di badare per qualche giorno a suo figlio Jesse (Woody Norman), di 8 anni. L’assenza di Viv si protrae più a lungo del previsto. Così Johnny porta con sé Jesse tra New York e New Orleans, nuove tappe del suo lavoro di interviste, approfondendo il rapporto col giovane nipote a lui quasi sconosciuto. Capendo a poco a poco qualcosa di più su entrambi, messo di fronte a un’inedita, per lui, dimensione genitoriale.

Mike Mills aveva già realizzato un film ispirato al padre (Beginners) e uno alla madre (Le Donne Della Mia Vita). C’Mon C’Mon procede lungo questo percorso (moderatamente) autobiografico, ancora una volta attingendo a motivi personali, dato che qualche anno fa anche lui è diventato padre. Il film, girato in un ricercato bianco e nero (con la fotografia di Robbie Ryan) vuole esplorare le dinamiche che si creano tra adulti e bambini, per restituire un’immagine veritiera e senza filtri dell’età infantile, che non ha nulla di semplice, e invece possiede un’articolazione emotiva complessa come quella di un adulto, semplicemente diversa.

La dignità e il fascino di questa “diversità”, Mills li insegue attraverso una struttura narrativa che cerca di tenere in equilibrio diversi motivi. In primo luogo c’è il tentativo di riannodare particolare e universale, sfuggendo alla gabbia della vicenda intimista da film indie del gioco a due tra zio e nipote, mettendo il loro rapporto in relazione con uno sfondo più vasto, quello delle riflessioni rilanciate dai bambini di parti disparate della nazione su temi più generali. In questo senso non è casuale che tra i luoghi scelti per le interviste ci siano città come Detroit, un tempo capitale dell’industria automobilistica e cuore di un’idea di futuro che i decenni successivi hanno sconfessato, o New Orleans, dove la memoria tragica dell’uragano Katrina è una ferita ancora aperta, che mette i ragazzi interpellati immediatamente di fronte all’urgenza delle questioni ambientali.

Allo stesso tempo C’Mon C’Mon, sia nell’uso “documentaristico” del bianco e nero – però sin troppo raffinato ed estetizzante – che nella scelta di coinvolgere ragazzini presi dalla vita vera, mira a sottrarsi quanto più possibile al film di finzione, guardando idealmente a un cinema del reale più diretto, cercato anche attraverso l’interazione tra un Joaquin Phoenix che punta a una recitazione dimessa e spontanea e il piccolo Woody Norman, che reagisce alle sollecitazioni del grande attore con sorprendente naturalezza.

Nonostante gli sforzi, però, è difficile non cogliere un sovrappiù di costruzione cerebrale in questo film pure intrigante, che punta a un difficile equilibrio tra voglia di autenticità documentaria ed elaborata costruzione narrativa di finzione. C’Mon C’Mon è punteggiato di una serie di parentesi, con tanto di didascalia in sovrimpressione, in cui una voce fuori campo legge estratti di alcuni libri, da The Bipolar Bear Family di Angela Holloway, che ovviamente ruota intorno al tema della malattia mentale, a Mothers: an Essay on Love and Cruelty di Jaqueline Rose, che parla di maternità: “Le madri sono il capro espiatorio dei nostri fallimenti personali e pubblici, di tutto ciò che è sbagliato nel mondo, che diventa il loro compito, ovviamente irrealizzabile, di riparare”.

È chiara l’intenzione di introdurre ulteriori livelli di riflessione, in cui però la narrazione finisce per incagliarsi, allontanandosi dalla spontaneità e la presa diretta della realtà. Poco spontaneo appare l’espediente del lavoro di Johnny, che insegna al nipote ad usare la sua attrezzatura audio. Così il bambino comincia a gironzolare per le città registrando le voci del mondo, quasi fosse il tecnico del suono protagonista di Lisbon Story o, in generale, uno di quei personaggi dei film metacinematografici del Wim Wenders che rifletteva sullo statuto della settima arte (non a caso Mills ha citato tra le sue ispirazioni, anche se più per l’idea del road movie e del rapporto tra un adulto e un bambino, Alice Nelle Città).

C’Mon C’Mon funziona meglio quando radiografa il quotidiano della vita a due tra Johnny e Jesse. Nei momenti in cui il bambino scompare all’improvviso per strada, facendo precipitare lo zio in una mai provata prima dimensione di paura e responsabilità. O quando il piccolo sollecita Johnny con domande inaspettate (sul rapporto tra lui e Viv, ad esempio) la cui franchezza e precisione chirurgica è più potente degli interrogativi altisonanti sul senso della vita che lui pone nelle sue interviste. Però è come se il film non si fidasse mai della semplice registrazione dei fatti, puntando sempre a una riflessione di secondo grado. Così, ogni volta che accade qualcosa col bambino, Johnny si confronta con la sorella, discutendo della complessità dell’essere genitori e del doversi occupare di un altro essere umano. Traducendo didascalicamente in parole quello che le immagini erano già state in grado di restituire con evidenza.

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