“Nulla di troppo”, recita un cartello appeso su di un albero nel bosco in cui s’inoltra, a un certo momento delle sue tragicomiche peregrinazioni, il protagonista di Beau ha paura. Ed effettivamente nulla sembra essere mai troppo, mai abbastanza nella terza prova del regista e sceneggiatore Ari Aster, dopo due horror, come si usa dire, di culto, Hereditary e Midsommar, che distillavano gli shock in una forma compiaciuta e intellettualistica. Qui invece crea un itinerario di tre interminabili ore che sottopone sia il protagonista (Joaquin Phoenix) che lo spettatore a una via crucis di accadimenti tanto dolorosi quanto, stringi stringi, gratuiti, accorpati in una confezione slabbrata e narrativamente volontaristica.
La vicenda di Beau ha paura ruota intorno al complesso rapporto che il protagonista, orfano del padre morto nel momento del suo concepimento, ha con la madre, la facoltosa imprenditrice Mona (Patti LuPone). Beau è un individuo dall’aria apatica, terrorizzato da ogni cosa, che vive barricato nel suo appartamento in un quartiere abitato solo da tossici e criminali. Alla notizia della raccapricciante morte di Mona – vittima di un incidente che l’ha privata della testa, così come in Hereditary c’era una decapitazione – l’uomo intraprende il viaggio per recarsi al funerale, funestato da continue deviazioni e incidenti, con minacce di poliziotti, investimenti automobilistici, famiglie apparentemente accoglienti ma gravemente disturbate, lotte nella vasca da bagno, teatranti itineranti, psicanalisti, ex fidanzate e rivelazioni sconvolgenti.
La A24, produttrice di Beau ha paura – pare sia il suo film a più alto budget, 35 milioni di dollari – è riuscita nell’impresa di regalarci in questi ultimi mesi due opere di bruttezza memorabile, nelle quali si esprime compiutamente la sua idea di cinema indipendente d’autore. Da un lato il premiatissimo Everything Everywhere All at Once, che aggiorna il pastiche postmodernista anni Ottanta in una versione goliardica, demenziale e grossolana, adatta al consumo orizzontale tipico di un’era con dispositivi di ogni tipo e disponibilità illimitata di contenuti. Dall’altro appunto questo Beau ha paura, prototipo del film d’arte che unisce cripticità autoriale del racconto e visione apocalittica della società, nella quale però queste conclusioni definitive e accigliate sul mondo più che da una vasta esperienza delle cose paiono derivare dalla percezione afflittiva, strettamente individuale e individualistica del singolare personaggio.
Il film di Ari Aster rimanda ai seriosi racconti cerebrali alla Charlie Kaufman, in cui la realtà non è che una proiezione delle allucinazioni del protagonista, svolgendosi preferibilmente direttamente nel sottoscala del suo cervello, come in Essere John Malkovich. E sebbene Beau si trovi di volta in volta in una giungla metropolitana tra Taxi Driver e Joker, un bosco da fiaba nordica con tanto di teatranti hippie, uno stadio in cui si svolge una sorta di processo ai suoi danni, a far da palcoscenico agli avvenimenti sembra essere sempre l’inconscio del protagonista, che materializza ambienti e circostanze da manuale psicanalitico. A cominciare dalla paradigmatica perdita delle chiavi del suo appartamento («l’Io non è più padrone nemmeno in casa propria» diceva Freud) e finendo in una soffitta (perfetta location anche per l’horror) in cui confrontarsi con le proprie paure e l’inevitabile ritorno del rimosso.
A parte l’aria da bignami psicanalitico, nella quale invece che all’ambiguità del linguaggio dell’inconscio si punta all’esemplarità delle situazioni, il film di Ari Aster lascia perplessi per la scrittura che affastella sequenze una più gratuita e didascalica dell’altra. Perché il quartiere in cui vive Beau è abitato solo da casi umani? E perché lungo il suo picaresco viaggio incontra solo altri casi limite di aspiranti suicidi, dipendenti da psicofarmaci, reduci di guerra traumatizzati? Capisco che lo scialo di ossessioni, personaggi sconvolti e accadimenti stranianti faccia tanto film d’autore. Alla fine però, come sempre nel caso di opere innamorate dei propri teoremi, Beau ha paura esprime sul mondo e la famiglia una visione sconsolata, ma elementare e tutta presunta. La quale non è cioè il frutto consapevole di conclusioni umilmente messe alla prova di un viaggio curioso e circostanziato attraverso fatti e dettagli della realtà, ed è invece soltanto l’esposizione di un presupposto che è solo nella testa dell’autore, disinteressato a quelle minuzie del quotidiano che potrebbero sconfessare le sue tesi granitiche.
Infatti il personaggio di Beau non muta mai, mortiferamente preda delle sue disperazioni immedicabili. Phoenix offre una prova d’attore che è appena una variazione dei tanti personaggi tormentati interpretati lungo la sua carriera, senza però le pulsioni autodistruttive estremiste di The Master, né la rabbia reattiva che innesca l’inquietante catastrofe collettiva di Joker. Resta, invece, intabarrato in un pigiama da bambino malcresciuto, trascinanandosi abulicamente nel suo vittimistico piagnucolio. La vicenda, perciò, non può che terminare nel cupio dissolvi. Il classico pugno di mosche, narrativamente altisonante, ma frustrante, di un autore con ben poco da dire.